serial kitchen

DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – fine

Sono stanco, voglio ritornare a casa e prepararmi una bella tazza di thè, accendere una bacchetta di incenso, chiudere la finestra e stravaccarmi sul divano senza avere niente a cui pensare. Fermarmi un attimo, almeno io, che tanto a fermare il mondo, quello non ci riesco a farlo.
Semafori sadomaso che non vengono più rispettati, motori accelerati e uomini sempre più maleducati nelle loro parolacce mentre attraverso la strada, questo incontro sulla via: strombazzamenti che mi stordiscono insieme alle troppe parole ascoltate e lette oggi, troppe puttanate, troppi affannosi pensieri che non riescono a dileguarsi. Che vita di merda! continuo a ripetermi, ma so che non è così. Quest’anno avremo un’altra estate torrida, si vede dalle nuvole che ci sono sulla mia testa, da questo accanimento pluviale che mi fa venire il torcicollo nel cervello mentre dovrei cominciare a preparare i registri in vista degli scrutini ma non ne ho voglia, voglio sprofondare, ecco, magari trovo un tombino aperto e inavvertitamente ci casco dentro procurandomi una frattura mortale. Sicuramente di questo incidente se ne gioverebbero i miei genitori turisti, visto che tutte le assicurazioni che pago ogni mese sono intestate a loro nome. Chissà se almeno i fiori me li portano, al camposanto! Sottoterra, mi raccomando. Niente lapide e stele funeraria, solo vermi che entrano ed escono senza imbarazzo dalle mie cavità ossute.
Invece, al posto di un tombino aperto mi ritrovo Scianga senza stampelle appoggiato alla sua macchina, lo vedo dall’inizio della strada che imbocco, il piccolo corridoio che separa i due palazzi, dove non passano le automobili e i bambini giocano a palla e gli stendipanni sono sparsi e le signore confabulano da un balcone all’altro e tutto si ferma un attimo mentre passo, non so perché ma ho questa impressione. Vedo Scianga che si agita e mentre mi avvicino sembra che voglia dirmi qualcosa, si agita e vorrebbe stare dritto mentre continuo a camminare verso di lui e comincio ad intravedere una sagoma nera, la volante dei carabinieri di stamattina parcheggiata ancora una volta sul marciapiede e davanti al mio portone. Agitati pure, caro il mio Scianga, perché ora non sono più capace di intendere e di volere, mentre entro nell’atelier del segaossa con il ringhio nervoso del cane del contadino lambrettato che la mattina va alla cambagna, e scusatemi tanto cari i miei carabbinieri nel regolare esercizio delle vostre funzioni, ma adesso mi avete stufato perché io devo entrare dentro casa, che non ce la faccio più quindi voi due ora spostate il vostro culo in uniforme e togliete subito la vostra volante, che il nostro caro amico segaossa adesso ve la prepara la fettina di carne per le vostre mogli che evidentemente non sono soddisfatte della vostra, di carne. Che non per niente il nostro segaossa qui presente è titolare di una macelleria equina, quella giusta per le vostre donne. Ma tu, segaossa, hai questo ghigno che non mi convince mentre fai il giro del bancone sfregando il tuo coltello contro l’acciaino, un dèja vu imbarazzante, che sta cominciando a farmi venire la pelle d’oca e anche voi carabbinieri, avete un sorriso che si sta trasformando mentre mi venite incontro e alle vostre spalle vedo affacciarsi all’entrata Scianga, Michele il pazzo, il contadino cambagnolo con il suo cane latrante, i miei vicini, Donata, Mimì e il gatto bianco, e all’improvviso capisco tutto, mentre mi trovo perduto e indietreggiante e mi viene in mente il film Delikatessen, ma non ho più posti in cui andare tranne che il muro piastrellato bianco contro il quale mi appoggio mentre uno dei carabbinieri estrae la pistola e l’ultima cosa che vedo è un bagliore folgorante, bianco come la purezza.

Poi distolgo lo sguardo. Il sole mi sta accecando, così guardo in giù, verso il mare e il promontorio del Conero. La spiaggia è bianca e in lontananza vedo una cascina blu, il Clandestino, appoggiato sugli scogli e sotto l’ombra della torre. C’è un buon profumo nell’aria, i miei piedi sprofondano nel terreno argilloso umido e nelle spighe di grano ancora verdi.
– Allora, ti decidi a venire o no? – sento alle mie spalle. Così mi giro e vedo il cielo viola all’orizzonte contro il quale i capelli ricci della mia amica si muovono come tentacoli. Mi giro ancora verso il mare e scatto una foto. Sembra di essere sulle bianche scogliere di Dover.
– Arrivo! – dico ad alta voce.
Si, arrivo, ripeto mentalmente. Mentre mi avvicino a lei con i piedi pesanti di fango, le stringo la mano e le dò un bacio tra i capelli profumati di salsedine.

Dissolvenza in nero.

“ Well, you get up every morning
and you see, it’s still the same
all the floors and all the walls
and all the rest remains
nothing changes fast enough
the hurry, worry days
it makes you want to give it up
and drift into a haze

revelations seems to be another way
to make the days go faster anyways… “

Husker Du

Quando la realtà supera di gran lunga la fantasia – titoli di coda

Tutto quello che è stato narrato in questo racconto è assolutamente vero…vi sembra strano? Eppure è così. Naturalmente colpo di pistola esploso dagli sbirri a parte! Volevo raccontare di un determinato momento storico sia della mia vita che italiano: la riforma scolastica dela Moratti. Alejandro Jodorwsky lo definirebbe un atto panico, il bisogno di esorcizzare, scrivendo, un momento di crisi non solo interiore. Diciamo che mi è servito come cura, e non solo a me (tu sai di cosa sto parlando, vero R. ?).
Naturalmente c’è un po’ di tutto, la realtà, la fantasia, la cucina, il caffè ma soprattutto Molfetta, la città che amo con le sue contraddizioni e i suoi abitanti che per quanto alcuni di loro siano alquanto bizzarri, rendono le giornate piacevoli e divertenti (senza riderne troppo, si potrebbe rischiare di non tornare a casa, la sera, con tutte le ossa intere…).

Questo racconto è dedicato a Raffaella. La descrizione del Prof. Linguetti e del Sistema Olistico è sua.
E anche dedicato a Scianga e al Lambrettato, che intanto sono passati a miglior vita.

Il segaossa: in realtà sono due fratelli, uno ha una macelleria equina e l’altro una generica in due parallele sotto la casetta dove si svolge la storia. Ho frequentato quella strada per anni visto che la stanza in cui suonavo con i miei amici si trovava esattamente al centro delle due. Se avessi potuto li avrei evirati. Ho sempre visto in loro degli sporchi maniaci. Sarà forse il contatto con la carne? E poi mi prendevano sempre in giro…almeno, l’avessero fatto guardandomi negli occhi!

I carabbinieri: degni compari dei due segaossa, erano sempre nella macelleria equina, non ho mai capito a far cosa, con la volante parcheggiata sul marciapiede a bloccare l’entrata del portone. Ho realmente avuto un alterco come quello descritto, ma non erano loro e non nel segaossa equino.

La mia migliore amica: era in realtà la proprietaria di casa e la vera protagonista del racconto. È lei la maestra e io le ho pitturato la casa con indosso un camice bianco che mi faceva assomigliare ad una via di mezzo tra uno dei teletubbies e uno spermatozoo. Però sono venuti bene, i muri!

La banca: è inutile che vi dica quale sia, a Molfetta penso ce ne sia solo una con il siluro ad impronte digitali. Giuro che quando sono entrato in banca e mi sono sentito fare quelle richieste dalla vocina computerizzata, non ci potevo credere. Non so se utilizzano ancora lo stesso sistema, intanto ho cambiato banca. Ci sono davvero entrato scalzo, non ne potevo più.

Il cassiere: ora, arrivati a questo punto, se tu ti riconosci in questa descrizione ti prego, non volermene. Non ti sei mai fatto i cazzi miei e sei sempre stato gentile con me, era la tua “capa” a rompere i coglioni! Però dovevo usare la licenza poetica, capisci? Quindi il fine giustifica i mezzi…peace and love, amico mio.

Scianga: ovunque tu ti trovi adesso, spero che le tue gambe siano perfette. Spero che tu stia correndo sulle nuvole, spero che al posto di quella bruttissima moglie che avevi (ma come hai fatto, eh Scianga? È proprio vero che l’amore non conosce barriere…) ti abbiano dato uno di quegli angeli bellissimi…non me ne volere per le parole che ho scritto su di te però diciamoci la verità, eri un bel paraculo, eh Scianga?

Allegra Famigliola: è inutile aggiungere nulla. Sono ampiamente descritti nel racconto.

Il Lambrettato: anche tu, lambrettato mio, spero che ti abbiano regalato il giardino dell’ Eden dove i frutti non hanno bisogno di esere curati e dove sempre splende il sole. Ti immagino su una nuvola a forma di lambretta…VAI CHE SI VOLAAAAAAAAA!!!!!!!

Svetlana: io non l’ho mai conosciuta. Era una collega della mia migliore amica. La descrizione è sua. Anzi no, una volta l’ho vista, di sfuggita. Aveva davvero un seno prosperoso…

Stanley: il primo ed unico pesce rosso con la coda da squalo, le cacche da 20 cm e poeta futurista muto. Stanley, che il Grande Oceano possa averti accolto con il rispetto che meriti e che Nettuno abbia costruito per te un bellissimo anfiteatro con pulpito.

Lapis: sei proprio un coglione, oltre ad averlo piccolo…non so cos’altro dirti.

La figlia della signora Carlomagno: è la figlia della signora Carlomagno…una scassapalle micidiale. Mentre l’allegra famigliola si divertiva a tenere il volume di radio e televisione alti, nessuno si azzardava a fiatare. Bastava ascoltare un po’ di Beck per sentire il suo odore nauseabondo dietro la porta.

Donata: come sta tua figlia, Donata? È cresciuta? E tu, come stai?

Il Clandestino: difficile descrivere il Clandestino. Per me è stato il luogo della mia rinascita, sia fisica che spirituale. In un buco di cucina sotto gli scogli, ho sfornato centinaia di piatti meravigliosi. E ogni piatto è stato un mattone che ha contribuito a ricostruirmi. Il momento più bello di ogni giorno è stato quello che io chiamo “l’ora delle lucertole”, il momento esatto in cui il sole si sta avvicinando all’orizzonte e tutti i granchi escono dalle tane quasi a volerlo salutare. In quel momento mi affacciavo anch’io a perdere il mio sguardo nel blu intenso, nell’orizzonte che non si vedeva, sul bordo dell’attesa a masticare maledizioni e a piangere e a bruciarmi di quelle lacrime. Se non ci fosse stato Il Clandestino e la mia migliore amica a tirarmi per i capelli, non credo che avrei ricominciato a fare il cuoco.

Beh…onestamente non so se ci avete guadagnato!

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DELIKATESSEN (24 ore Clandestino) – 7 parte

Le sei meno venti.
Alle sei meno cinque non fanno entrare più nessuno in Posta. Alzo il passo. Cerco di prendere scorciatoie impossibili scansando in uno slalom disarticolato le persone che si affannano dietro le bancarelle dei fruttivendoli sparse qua e la, cariche di buste gonfie e passeggini vuoti dei bambini, ma strabordanti di rotoli di carta igienica e detersivi. Mi squilla il telefonino. L’amica mia bellissima.
– Amore mio…
– Oh! Ma che hai? Che stai facendo che ti sento tutto affannato?
– E che sto facendo, che sto cercando di arrivare in Posta a pagare le bollette prima che chiuda?
– E vabbè, non ci potevi andare domani mattina?
– E a scuola chi ci va?
– Ma che cazzo, a scuola non puoi andare un po’ più tardi? Ma che ti credi che senza di te non fanno lezione? Quando vogliono loro ci devi stare dalla mattina alla sera, e quando serve a te una mezz’oretta per le bollette, manco per il cazzo, scusa eh!
Cammino. Sento il mio fiato affannoso. Il braccio destro indolenzito. Con te non posso incazzarmi, lo sai che ti voglio bene. E hai ragione pure tu, però.
– Lo so, lo so…che ci posso fare se sono fatto così? Senti, adesso è andata, mò vado a pagare queste cazzo di bollette che mi hanno pure ingoiato il bancomat, e poi domani si pensa. Passi da me stasera? Cucino io.
– Che mi fai?
– Penso di avere delle zucchine, la scamorza affumicata, dei pomodorini, i moscerini…compro l’avocado che ti faccio un po’ di guacamole?
– Insomma, hai le solite cose!
– Eddai! Ti faccio la crema al cioccolato con le amarene…
– Mmmmmhhhh…che mi dai in cambio?
– E che ti do in cambio?…Dai, prenoto una cena a Senigallia per la settimana prossima, mi prendo due giorni a scuola e ci andiamo, ci stai?
– Ma dormiamo insieme?
– Se per te non c’è problema…
– Va bene, accetto!
– Ma almeno tu, mi vuoi bene?
– Certo che sei proprio stupido!
– Grazie, sapevo che potevo contare su di te. Sono davanti alla Posta. Ci sentiamo dopo.
– Fai il bravo…
– D’accordo…

– No scusi giovanotto, ha visto che ore sono?
– Sono le diciassette e cinquanta, e allora?
– Veramente il mio orologio fa cinquantatre.
– Veramente sono in orario, quindi prendo il numerino e faccio la fila mentre lei è meglio che continua a fare il suo lavoro, che io pago le bollette, se lei me lo consente. Oppure non è consentito?
– Eeeeeeeeh…quanto chiasso! Vada, vada. Che altrimenti non fa in tempo!
Ma guarda questa imbecille che mi fa rimanere di sasso mentre si gira di spalle e se ne va. Prendo il numerino. Il mio è l’ottocentosessantaquattro. Siamo al cinquantanove, tutto sommato è quasi arrivato il mio turno. Ci sono tre donne e un uomo che occupano gli sportelli aperti. Dietro i vetri, i posti sono occupati da tre donne e un uomo, guarda caso, che si vede che non vedono l’ora di andarsene via, di finire le loro canoniche otto ore passate davanti ad un terminale e a parlare con gli avventori delle bollette, casalinghe, pensionati, onesti lavoratori e imbecilli come me, che si fanno prendere la mano da questa vita tutto sommato divertente, che non ha mai un giorno uguale all’altro…ma forse mi sbaglio. All’interno della sala gli altri impiegati corrono frenetici, non ne capisco il reale motivo, o forse si, anche per loro vale il discorso di voler lasciare questo posto nel più breve tempo possibile. Un portapacchi amico mio entra con il suo carico di pacchi da registrare.
– Toninooo…- gli fa una delle impiegate – e non potevi arrivare prima?
– Ma ttu lo ssai che ttraffico che ci staa a quest’ora pper strada, o no? – risponde Tonino alla collega mentre mi guarda e mi fa l’occhiolino, in segno di saluto.
Io attendo dietro la mia linea gialla e mi sposto per far passare Tonino, che lui parla davvero così, non lo faceva apposta per prendere in giro la collega.
Ecco il mio turno, annunciato da un dlin-dlon e dal display luminoso dai led rossi: ottocentosessantaquattro.
– Buonasera! – faccio cordialmente all’impiegato uomo, mentre passo i bollettini sotto il vetro senza ottenere una risposta, anzi, comincia a fischiettare ignorandomi, si gira e se ne va.
Ma come cazzo è?
Ma non andavate tutti quanti di fretta?
Rimango sinceramente basito, immobile, incapace di pensare al perché di un comportamento del genere, ai limiti dell’educazione e della professionalità spesso ribadita e sottolineata nelle pubblicità che trasmettono in televisione.
Eccolo che ritorna. Ma neanche scusa mi chiedi? Vabbè, l’importante è che ci sbrighiamo.
– Duecentosettantotto e venti! – mi fa dopo aver infilato i bollettini nel computer.
Gli passo i soldi, anche i centesimi ti metto, brutta faccia di merda…
Il suo viso è asettico, impassibile, mentre si passa i soldi tra le dita per controllare se sono veri o falsi, e guarda me, per vedere se sono affidabile forse?
Brutta faccia di merda, continuo a ripetere mentalmente, brutta faccia di merda…poi mi dà i bollettini. Li prendo, li piego, li infilo in tasca e me ne vado fuori dai coglioni.
Brutta faccia di merda…

La notizia che più mi ha colpito oggi al TG, più di tutti i morti della guerra e delle stronzate dette dal faccione, è stata quella dell’eliminazione dai programmi scolastici ministeriali del prossimo anno, da parte della Moratti, della teoria evolutiva Darwiniana. Veramente questa cosa si sapeva già da un bel po’, ma non pensavo che si arrivasse davvero a questo. Siamo in un regime, dobbiamo per forza credere che l’uomo è nato da una scoreggia di Dio e che la donna è nata da una sua costola. Che puttanata! Allora, tutto quello che è stato studiato fino ad ora? Tutti gli esperimenti e le ricerche e le ore passate da eminenti dottori e scienziati nel dare credito a questa teoria, motivandone i risultati ottenuti con prove efficienti e robustissime?
E i miei “onestissimi e educatissimi” vicini di casa? Io mi rifiuto di credere di essere stato creato dalla stessa persona che ha dato alla vita questa gente, non per essere razzista, ma è come se in quel momento il cosiddetto Grande Architetto sia rimasto vittima di un’alitosi nauseabonda, pericolosa, giocherellona e incurante. Perché i miei “nobili” vicini di casa devono essere per forza il frutto di una mutazione genetica che li ha portati ad evolversi in un contesto culturale a loro estraneo, come gli scarafaggi che giorno dopo giorno diventano più coriacei e resistenti agli insetticidi, continuando a bighellonare e a nutrirsi di trappole altrimenti mortali. Così immagino il mondo scientifico tutto alzarsi in rivolta, manifestare con festosi e giocosi girotondi morettiani sotto il Parlamento, indossando maschere dalle sembianze di scimpanzé con in mano grosse banane e poi buttarne le bucce davanti all’entrata per far fare dei grossi scivoloni ai nostri parlamentari belli, quelli che si dice ci governino dall’alto dei loro scranni.
A questo penso mentre entro nella vetreria, fogliettino in mano e sguardo speranzoso. Forse un po’ troppo perché al mio buonasera non ottengo risposta. Il laboratorio è deserto. Davanti a me un enorme tavolo in ferro, sembrerebbe, con vari attrezzi sparsi, righelli che ho visto solo in casa del mio amico architetto, normografi e resti spuntati di vetri di vario spessore. Per terra polvere, tanta polvere. Che scricchiola sotto i miei passi gommati, quindi polvere di vetro. In un angolo alla mia sinistra, appoggiate al muro, altre lastre di vetro di diverse misure, sulla mia testa un argano minaccioso come una spada di Damocle e alla mia destra una porticina che si apre lasciando uscire (o entrare, dipende dai punti di vista) un bambino su un triciclo tipo Shining che si ferma proprio davanti ai miei piedi, mi guarda con quegli occhietti ghignanti, poi punta i piedi per terra, si dà una spinta all’indietro, fa dietrofront e ritorna da dove era venuto.
Si riapre la porticina.
Questa volta ne esce una signora graziosa che dovrebbe essere la mamma del bambino, capelli neri in una treccia lunga dietro la nuca, forse quarantenne, in saloppette e maglietta a mezze maniche nonostante il freddo. Accosta la porta alle sue spalle e si dirige verso di me con un “Buonasera, dica…” flebile che quasi mi mette in imbarazzo.
– Salve, volevo sapere se si potevano fare delle mensole di questo genere in vetro – le faccio mostrandole il foglietto piegato e pieno di disegni apparentemente regolari e pieni di numerini.
– E questi numeri dovrebbero essere le misure?
– Si – le rispondo.
– E per che cosa le deve usare? Che ci deve mettere sopra?
– Volevo metterci dei libri !
Mi guarda. A lungo e in un modo che mi sembra di essere attraversato dentro, come se mi stesse leggendo i pensieri. Poi riabbassa lo sguardo sul foglio rivolgendo di nuovo l’attenzione ai disegni.
– Gliel’ho chiesto per sapere lo spessore…si, si possono fare queste mensole però ho bisogno di un po’ di tempo e sinceramente adesso non so dirle neanche la spesa.
Rimango un attimo spiazzato. Non so cosa dirle perché almeno su quest’ultima cosa mi ha anticipato. Allora adesso, che non ho più voglia di discutere con nessuno, le dico che va bene, che non ho fretta, che mi chiami lei, ora le lascio il mio numero di telefono, se non rispondo non si preoccupi, lasci un messaggio in segreteria che poi mi rifaccio vivo appena posso, le lascio un acconto? No? Va bene, allora aspetto una sua chiamata, arrivederci…
– E il vetro, di che colore lo vuole?
– Lo voglio trasparente! – mi giro e me ne vado, ritornando a immergermi nel traffico pedone in cui cerco di perdermi con fare anonimo.
Ma non penso di riuscirci più di tanto perché spavento una vecchietta appena giro l’angolo, che si avvicina al muro stringendo a sé la sua borsetta. E mi viene da sorridere.

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SERIAL KITCHEN – 7 PUNTATA

13. PATATE MANTECATE

– Sig. S. buonasera. Mi ha fatto chiamare?
– Ah…lei è lo chef! Venga, si accomodi pure. Posso offrirle un bicchiere di vino?
– La ringrazio, ma io non bevo mai quando lavoro.
– Allora vuol dire che recupera tutto insieme quando non lavora…scherzo! Ma lei è così giovane, quanti anni ha?
– Quasi trenta.
– Non li dimostra, sa? Davvero. E comunque volevo farle i complimenti, bravo davvero. Lo vede? Sono commosso… le sue patate mantecate… mi hanno ricordato mia madre… mi hanno fatto tornare a quando ero bambino… grazie davvero!
– Sono molto onorato, sig. S. Questo è il più bel complimento che abbia mai ricevuto.
– Non è un complimento, è qualcosa di più! Vede? Sto piangendo…grazie…
– Sono senza parole… ritorno in cucina… le auguro una buona serata.
– Grazie, buon lavoro. Ah! Qual è il suo nome?
– Barberi.
– Non lo dimenticherò!

– Aò, il sig. S. s’è messo a piagne.
– Davvero!? E perché?
– Per le patate. Dice che gli ricordano sua madre.
– Anvedi sto cojone…davvero?
– Eh!
– Mah!
– Boh… beato lui che se l’è magnate le patate. Io è da stamattina che non mangio un cazzo!

“Il mio primo pensiero fu che fosse un pervertito…
ma subito rammentai a me stesso che è qualcosa di assai peggiore:
è un assassino spietato, nonché – come mi ricorda spesso – un grande chef”.

David Madsen – Confessioni di un cuoco eretico

14. LE ULTIME BOCCATE DI ARIA FRESCA

La mensa è meglio che non ne parliamo. Mentre gli altri salgono su, Barberi scende nell’altra cucina a preparare da mangiare ai gatti, spezzatino di pollo con peperoni. Pure disossato gliel’ha fatto, con il rosmarino fresco. E pensa che loro mangiano meglio di lui. Versa tutto dentro una bacinella ed esce fuori. È bellissimo vederli tutti lì in fila e appena lo vedono, corrono da tutte le parti e si saltano addosso e si aggrappano al suo grembiule…non sembrano gatti ma cavallette un po’ cresciute. Li guida con il fischio fino al solito punto, lontano dall’entrata di servizio che sennò poi comincia la solita solfa che i gatti sono molesti. Ma sarete molesti voi, non i gatti! Lascia tutto lì, distribuisce carezze e respira una delle ultime boccate di aria fresca prima di rientrare in cucina.
Per fare questo sale dalla scala antincendio, così entra dal retro e si ferma davanti all’oblò per vedere i ragazzi dentro che sgambettano e finiscono di sistemare la linea per il servizio. Visti da lì, sembrano personaggi di un film guardato da un posto per privilegiati, oppure come sbirciare dal buco della serratura.
Entra in cucina. Sistema sul pass il piattino con il campanellino regalo di Molinaro e il pennarello blu per cancellare le suites sulle comande. La radio è già accesa, Morgan e le sue Canzoni dell’Appartamento.
– Però, siamo in sei stasera…- fa Barberi rivolto agli altri.
– Infatti, volevo dì se stasera ce possiamo distribuì meglio, che dici sciefff! – gli dice Saulle con quel suo accento strano accentuando la parola chef, che lui lo sa che Barberi non vuole che lo si chiami così.
– Allora, Miluzzi e il Punk ai primi, Stefoni antipasti e dessert, e tu…- rivolgendosi a Saulle – con me ai secondi che ti faccio fare un culo così che ti ho beccato a fumare in ufficio…
– Ma pcchè? E che ci stavo solo io a fumare? Marooooooo…pure con te ai secondi…tu mi fai fare un culo bestiale…e Miluzzi? Perché Miluzzi niente?
– Perché scusa, Miluzzi non si farà il culo ai primi? E poi al Miluzzi ci penso io stanotte…
– Infatti, se non me sto attento a questo, ‘na notte me lo trovo dentro ar letto! – fa eco Miluzzi.
– E io che faccio? – fa Cotugno.
– Facciamo così, tu stai ai secondi con Saulle e io mi metto al pass. Poi faccio qualcosa per la Gassier durante il servizio.
Si apre la porta della sala.
– Maestro buonasera!
Eccolo Renzo, con la sua bella faccia da cazzo e il suo sorriso odioso, ma l’unico che riesce a proporre ai clienti i piatti più strambi e curiosi del menù, l’unico richiesto da tutti i clienti per la sua dote affabulatoria fuori dal comune.
Lo guardano tutti dalla testa ai piedi. Le sue scarpe dalla suola bucata fanno ridere, il suo sorriso senza denti da un lato…

– Allora come vanno le cose, chef? Tutto pronto per la Gassier? Immagino di si, guarda che squadrone stasera!
Così esordisce Renzo, preludio di una serata battagliera. E c’è dell’ironia nella sua voce, come sempre. Un’ironia mal celata che comincia a indisporre tutti quanti. I ragazzi sono nervosi, come tutte le sere. Prima del servizio serale c’è sempre quell’adrenalina sospesa nell’aria che rende tutti quanti schizzati. Le mani cominciano a muoversi a ritmo della musica, i passi si fanno più veloci e si attende la prima comanda, quella che darà il via alla serata.
– Tutto bene, Renzo, tutto bene. Immagino tu voglia sapere quale sarà il menù, no? Per la mise en place e per i vini.
– Sei un grande, non per questo ti chiamano Maestro!
– Ma che sta’ a dì, ma statte zitto, statte – gli fa eco Miluzzi mentre mette il sale nel bollitore.
E Barberi si gira a guardarlo, con lo sguardo gli fa cenno di smetterla, prima che la cosa degeneri perché se conosce bene Renzo…
– Senti, ma che qualcuno ti ha interrogato? Perché non controlli con il dito la temperatura dell’acqua, che è quello che sai fare meglio? – lo provoca Renzo.
– Vabbè, che ne dite di smetterla tutti e due? Questo è il menù – e gli passa il fogliettino e lui se lo legge muovendo le labbra, come per farselo rimanere bene impresso in mente. Quando ha finito lo ripassa a Barberi, guardandolo con un’aria di soddisfazione. Lo chef lo appende al muro con il nastro adesivo e gli chiede:
– Che ne dici? Si può fare?
– Certo che si può fare! Sai la signora come sarà contenta, poi sarà con un ospite quindi, dobbiamo fare per forza bella figura. Che dici, per l’abbinamento dei vini ci penso io?
– Se ti va, puoi anche chiedere al maitre. Il menù mi sembra un po’ complesso.
– E che ti credi che io non ne sono capace?
– E’ giusto per avere un confronto, no? Poi fai un po’ come ti pare, basta che gli abbinamenti li fate giusti.
– Ma lo sai tu il maitre com’è, non è che gli interessi più di tanto…vabbè, mò vediamo.
E va via sgambettando con quelle scarpe consumate.
Il Punk sta sistemando le ultime cose, Barberi si avvicina allo stereo e mette un cd di Photek, drum’n’bass spinta, giusto per entrare un po’ con la ritmica nel servizio.

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SERIAL KITCHEN – 6 PUNTATA

11. NON BRUCIARTI!

– Dai, muovi ‘ste cazzo di dita, dai…che cazzo prendi la paletta…
– Ma me brucia…
– Te devi brucià, frocio! Te devi abituà…così, porcoddue. Quando ti fai le canne non ti bruciano le dita…daje su, tanto c’hai altre otto dita.

“Dio creò il cibo. Ma di certo il Diavolo ha creato i cuochi.”

James Joyce – Ulisse

12. IL MENU’

Carpaccio di seppia e finocchio crudo con zabaione al dragoncello e salsa al prezzemolo
Tonno scottato al pepe nero e vialone nano croccante con conditella, gelatina allo sherry e caramella alla menta
Parmigiana di melanzane e merluzzo con burrata e pesto leggero al basilico
Chitarra alla carbonara e triglie
Ricciola scottata e minestra fredda di pomodori
Maccheroni di Gragnano e polpo croccante al cipollotto fresco
Sebadas e marmellata di sedano
After Eight al cardamomo

Cotugno butta fuori il fumo della sigaretta. Guarda Barberi restando in silenzio. Anche Miluzzi rimane in silenzio. Il Punk suda. Fa caldo. Pure in ufficio c’è l’oblò, ma non serve a granchè. Bussano alla porta. La voce di Renzo chiede se può entrare.
– Si accomodi.
– State fumando, eh?
Una pausa e sguardi assassini che si girano a guardarlo.
– Stiamo facendo il menù.
– Allora fai tutto tu.
– Si, facciamo tutto noi, non ti preoccupare. Ciao.
Un invito più che eloquente accompagnato dalla spinta dello chef sulla porta che si chiude.
– Allora diamoci da fare – spezza Cotugno. – Che fate tu e Miluzzi, ve n’annate?
– Non penso. Milù? Che fai tu?
– Rimango qua, è logico. Oggi ce divertimo un po’, famo ‘na cannetta e via!
– E allora falla ‘sta canna…

Da un po’ di tempo a questa parte, a Barberi gli è presa la fissa del gelato, il pomeriggio. Un po’ perché gli viene fame, ma non gli va alle sedici postmeridiam di mettere sul fuoco acqua e padelle per fare un po’ di pasta, non gli sembra né il luogo e né il caso, visto il caldo aberrante che sta sconvolgendo Roma e quello che c’è da fare nel pomeriggio.
Prima dell’estate Barberi si comprava i vasetti da mezzo chilo di crema allo yogurt Muller, quello che fai l’amore con il sapore, al gusto di frutti di bosco con i frutti dentro. Lo apriva e se ne faceva fuori subito quasi metà vasetto, poi nel rimanente ci aggiungeva muesli e frutta a pezzettini soprattutto banane, e se lo finiva. Adesso invece, gelato.
Vicino casa c’è un gelataio che lo fa artigianale il gelato, ed è pure buono, pensa Barberi. Di sera è sempre pieno e fare la fila diventa un’impresa, però a quest’ora ce n’è poca di gente, più che altro persone anziane o mammine con i figli (che non sa perché ma gli sembrano tanto diverse dalle mammine che la mattina gli fanno da sveglia); poi è piacevole andare lì e staccare un attimo il cervello dai pensieri, seduto su una di quelle panchine ad un angolo abbastanza ventilato di quella strada trafficata di questa città che non è sua, lui con in mano un mega cono da tre euri e dieci al gusto di doppia panna ribes frutti di bosco e yogurt bianco e se vuoi un po’ di granella, con il biscottino e il cono piccolo colorato compreso nel prezzo insieme al sorriso della gelataia che solo quel sorriso lì, basterebbe a non farti alzare dalla panchina in legno squassato. Invece dalla panchina, lui si deve alzare che scherzando e ridendo come al solito si fanno le cinque e deve ritornare a casa, almeno si butta un po’ sul letto.
Ma il letto è una palude di lenzuola in cui annega, tiepida e stropicciata che gli si appiccica addosso come un sudario. Come diavolo fa il rustico Miluzzi ad addormentarsi? Lui lo sente pure che i suoi occhi vorrebbero chiudersi, ma proprio non ci riesce, fa troppo caldo. E poi i motorini che passano, e nel bar di sotto gli uomini che prendono il posto delle donne la mattina, che tra l’altro fra di loro ci sta uno che a seconda del tasso alcolico presente nelle sue vene, intona a squarciagola stornelli che io non ce la faccio più… pensava preparando i due dolci della sera, l’infuso di cardamomo e la gelatina allo sherry. Con una bacinella con il cioccolato bianco a bagnomaria, sul tavolo la gelatina e nell’angolo una pentola con la zuppa degli scarti del pesce. Mette il sale di Maldon su una sottile caramella di zucchero e menta mentre Cotugno sta facendo la salsa passpartout, una cazzo di salsa stronza che usavano dappertutto fatta con vino, aceto balsamico, cioccolato, cannella, arance e qualche altra amenità, che una volta terminata aveva il sapore del mosto di vino, un qualcosa di antico. Miluzzi farcisce i maccheroni di Gragnano con il ragout di polpo e il Punk fa la crema fredda di pomodoro. Stefoni mette sotto vuoto il pesce sporzionato e intanto finisce la linea per il ristorante. Tanto più tardi arriverà Saulle e per quell’ora dovrebbero farcela, almeno se lo augurano. C’è silenzio. Tutti quanti lavorano senza dirsi nulla, Barberi ogni tanto fa un giro, assaggia, tira qualche cazzotto fino a che la tensione cala perché anche lui è nervoso e Cotugno, ancora una volta, lo guarda e schiocca il medio e il pollice delle due mani contemporaneamente.
Lo chef guarda l’orologio. Versa il cioccolato in un bicchiere, fa sottili strati di cioccolato fondente croccante con l’infuso al cardamomo freddo, poi ripete l’operazione. Vanno a guardarlo. Il Punk gli propone i suoi riccioli, lui gli dice che non ne vale la pena, visto il caldo. Mette la mousse in frigo insieme alla gelatina allo sherry che ha tagliato in due cubi e ritorna al brodo. È pronto, lo filtra e lo versa in un pentolino. Prima del servizio, lo rimetterà sul fuoco un’altra volta.

Intanto si fanno le sei.
Arriva Saulle tutto trafelato casco in mano con la mano aperta e il braccio teso.
– Uè scieff! Allora stasera ci sta la Gassier, è o’ver?
Barberi lo guarda con un po’ di sorpresa mentre gli stringe la mano.
Il figlio di puttana sapeva sempre tutto in anticipo. Veniva da Mondragone Saulle, dove facevano la mozzarella di bufala e i pomodori erano buonissimi. Figlio di un ristoratore, cresciuto a suon di mazzate del fratello dentro una cucina, era riuscito ad andare in giro sempre a testa alta, veloce sul suo scooter, maniaco in cucina, e diabolico quando sorrideva. Anche quando per sbaglio Barberi quasi gli ruppe il naso con un piatto di vetro diretto a Renzo.
– Ebbene si, abbiamo la Gassier. Il menù comunque sta già pronto, tu vatti a cambiare e vai su ad accendere che poi ti dico.
– Vabbuò! Allora ci vediamo su.
E sparisce nel corridoio.
Barberi intanto finisce di preparare l’appetizer per la cena, una specie di creme caramel piccolissimo con dello zenzero e le uova del merluzzo che servirà freddo con una salsa al prezzemolo, una cosa semplice e sfiziosa.
Stefoni e il Punk stanno finendo di preparare il carrello della roba da portare su, canticchiano e gli fanno vedere la crema al mascarpone, consistenza e sapore sono perfetti. Non si vede il Miuzzi, chissà che fine avrà fatto.

Barberi sale su. Miluzzi e Saulle insieme imboscati nell’ufficio a fumare.
– Sta tutto acceso già, Barbè. Che fai tu, vieni a magnà? – gli fa Saulle mezzo in dialetto romano e mezzo in dialetto di Mondragone. Lo guarda e lui già sa che gli sta dicendo “che testa di cazzo”, così lo anticipa fintando una manata sulle parti intime. Un cazzotto nei fianchi e via, così per scherzare.
– Arrivo, arrivo…- e va in cucina a sistemare la sua postazione. Aspetta che i ragazzi scendano in mensa per rimanere solo, poi butta un rametto di rosmarino sulla griglia per annusarne l’odore, gli ricorda i nonni davanti al braciere con i carboni sui quali buttavano le bucce di mandarino. I coltelli e le pinze, tutto quello che gli occorre per il servizio è al suo posto.
E che Dio ce la mandi buona, pensa Barberi.

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SERIAL KITCHEN – 5 PUNTATA

9. UN GOCCIO DI SALSA

A Cotù, ma che stà a fà?
– E sto a schiumà er fondo bruno!
– Sulla cassa delle bottiglie…
– E nun c’arrivo…so basso, so…
– E potevi salì su sto cazzo! Te posso toccà er culo? Me sembrano du pagnotte!
– Sta bbono su, che me devo concentrà… bbono, sta bbonoooooo…cazzo, m’è caduto er mestolo dentro!”

…e se mio padre m’avesse
m’avesse insegnato
a fare il fotografo
di matrimoni…”

Ivan Graziani

10. FORSE FA CALDO

Tonio o’ pesciarolo non è ancora arrivato, il che rende Barberi piuttosto nervoso.
Se non arriva il pesce nel giro di una mezz’ora, sarà nella merda. Perché non riuscirà mai a pulirlo e a sporzionarlo prima di mezzogiorno. Va avanti e indietro quasi sclerando, continua il più possibile a preparare la linea mentre in giro regna l’anarchia assoluta e lo scazzo generale lo si sente addosso come una coltre pesante e sudata. Comincia a preparare il tortino di ricotta e scommette con se stesso che nel bel mezzo della preparazione arriverà Tonio, con il suo andare claudicante settantenne e il suo accento mezzo meridionale mezzo romanesco, che cercherà in tutti i modi di dimostrargli che il suo pesce è freschissimo, quasi vivo, guarda l’occhio uè!
E infatti è quello che accade. Tonio arriva proprio quando Barberi sta mettendo tutti gli ingredienti nel cutter e deve interrompere per andare a controllare, pesare, guardare l’occhio del pesce per farlo contento, a Tonio. Che poi gli chiede se c’è qualcosa da mangiare e gli da pure una birra, a Tonio. E naturalmente c’erano anche cinque spigole in più e un merluzzo da cinque chili come al solito. Però è tardi. Nel pomeriggio dovrebbe arrivare anche Cotugno.
Finisce il tortino. Intanto il pesce è sul lavandino e la ricotta nel forno. Miluzzi continua a preparare la linea. Barberi affila il sottile coltello per il pesce. Saluta il tonno, come sempre toccandogli la testa e guardandolo negli occhi. È un onore che si concede per primo. Infila la punta della lama nell’attaccatura della testa, e comincia a tagliare.

Intanto si fa mezzogiorno.
Lui e Miluzzi come al solito hanno saltato il pranzo. A parte che la mensa è il solito trionfo di pasta con il pomodoro e spinacine della Amadori che non ne possono più, che si ripresenteranno la sera insieme all’acidità di stomaco.
Il tonno è tutto tagliato, attacca con la ricciola e comincia a pensare che è tardi. Bisogna salire su ad aprire il ristorante e almeno lui, pensa di essere nella merda. Va a controllare il tortino. Non è ancora pronto, deve cuocere lentamente altrimenti rimane troppo bagnato. Miluzzi gira in cucina con il carrello come se fosse il vespino. Ha lo sguardo spiritato, la testa pelata che fuoriesce dalla bandana azzurra legata sulla fronte. Suda. E guarda Barberi facendogli cenno che comincia a salire. Poi una testa piccola e ugualmente pelata si affaccia sulla porta e dice:
– Buongiorno!
E sorride e fa ciao con la mano e si avvicina a Barberi e mentre se la stringono, quella testa fa con la voce un po’ bassa, tipo complice:
– Buongiorno maestro, come va?
– Com’a stu cazz! – gli risponde Barberi abbracciandolo e dandogli una pacca sulla schiena, più bassa di parecchio, ma forte come quella di un bulldog. Cotugno, il cane da combattimento privato di Barberi.
La prima volta che si sono incontrati, Cotugno aveva le mani infilate in una vasca enorme con una trentina di chili di macedonia, era lì che affondava, quasi spariva. Ma stava lì, con quella faccia da mastino sorridente a rimestare, e si accorge che Barberi è fermo con lo sguardo su di lui e gli fa:
– Qualcuno deve pur fare il lavoro sporco. E io ho una missione da compiere!
– Infatti, e vedo che tu ci metti parecchia buona volontà.
Ma Cotugno fece finta di niente e continuò a mescolare la macedonia.
Sicuramente se Cotugno fosse nato vent’anni prima, sarebbe stato un “sorcino”, appassionato com’era della musica di Renato Zero. Che poi la definizione gli sarebbe pure calzata a pennello, vista la sua statura. E lui altra musica non ne ascoltava. Spesso in giro in macchina a bere vino e mangiare formaggi marci, tutti e due si portavano dietro un sacchetto di sale grosso e rosmarino fresco perché quando in qualche locale chiedevano il “ciccio”, mancavano sempre di questi due ingredienti fondamentali. E poi masticavano liquirizia ascoltandosi le cassettine di Renato, che a Cotugno ogni tanto gli usciva fuori una lacrimuccia per l’emozione, che due cose lo facevano incazzare: i camerieri durante il servizio e se qualcuno gli toccava il suo cantante preferito (addirittura era in possesso di album come Artide e Antartide , introvabile!). Non era comunque vero che Cotugno ascoltava solo Lui: infatti era il primo che quando iniziava il servizio al ristorante, infilava nello stereo i cd di drum’n’bass sfregandosi le mani dicendo “daje che stasera ce divertimo!” .
Cane da combattimento, Cotugno. Spesso Barberi lo sguinzagliava alla ricerca di qualcosa in giro per Roma, o andavano insieme a comprare piatti e coltelli. Oppure lo faceva stare al pass durante il servizio, in questo modo nessun cameriere si permetteva di fiatare altrimenti lui abbaiava e mordeva…

– Oh! Ma che te sei tajato i capelli?
– Noooooo… li ho legati.
Un attimo di pausa.
– Allora mi vado a cambiare. È arrivato il pesce?
– E che, non si vede? – gli fa Barberi mostrandogli il grembiule di plastica sporco di sangue di tonno e squame in genere.
– Lo sto finendo di pulire, come al solito c’era qualcosina in più, diciamo un merluzzo e delle spigole.
– Allora siamo nella norma.
– Miluzzi è già su. Io rimango a finire il pesce e controllo il tortino di ricotta.
Poi lo vede che sparisce e ritorna alla ricciola.
Il merluzzo, oltre ad avere un bel fegato, ha anche le uova. Le separa delicatamente per non romperle e le mette in una ciotolina pensando che se le mangera scottate in padella. Invece no, non andrà a finire così perché intanto…
– Barberi! Dove sta il vostro “maestro”?
– Cosa cazzo vuoi!
– Oh! Dove cazzo stai!
– Sto facendo il pesce.
– Posso venire?
E intanto Renzo va lo stesso, con le sue scarpe slabbrate e la sua faccia di cazzo da cameriere che però si vogliono bene, anche se qualche volta si tirano le cose dietro.
– Cazzo, ti sei tagliato i capelli…
Barberi lo ignora.
– Senti, stasera c’è a cena la signora Gassier con un ospite. Mi ha detto di avvisarti e se potevi preparare un menù come al solito, quel cazzo che ti pare.
La signora Gassier, una cliente francese che una volta è andata a cenare al ristorante e Renzo le disse che se voleva la sera successiva, visto che alloggiava in albergo, potevano farle un menù personale. Lei accettò. Loro pure.
Questo significava rimanere in cucina, inventare un menù, e fare i conti con il servizio serale che aveva molte possibilità di diventare un inferno.
Mentre Renzo gli parla, Barberi continua a far scorrere la lama contro la spina centrale del merluzzo e separa le due parti lasciandole attaccate alla pancia. Poi dà l’ultimo taglio sotto la gola e stacca completamente le spine tirando su la testa e dando un taglio alla spina centrale. La lisca rimane intera. Separa la testa dal resto della lisca e la spacca a metà. Gli servirà per fare una zuppa. La lisca insieme alle altre spine la userà per fare il brodo di pesce. Si gira verso Renzo che intanto era rimasto a guardare.
– A che ora arrivano?
– Verso le nove, come al solito.
– Va bene.
Lo guarda contento e se ne va.
Barberi ritorna sul pesce.
Le spigole.

– Cotugno! – urla Miluzzi quando scende giù e incontra Cotugno che sale dallo spogliatoio. Arrivano insieme mentre Barberi finisce le ultime spigole. Cotugno tira fuori il tortino dal forno e lo fa vedere. Poi lo tocca e lo stacca dalle pareti. Il suo viso si allarga in un sorriso enorme e li guarda.
– Perfetto! – fa.
Barberi non lo tocca perché è lurido. Miluzzi guarda il merluzzo e dice:
– Sopra sta tutto acceso. Mò so venuto a prenne l’insalata che sopra è finita. Che ce sta qualche altra roba da preparà?
– Stasera c’è la Gassier con un ospite.
Cotugno si gira di scatto. Scuote la mano come a dire “me cojoni!”.
– E che je famo!
– E che je famo, a’ Cotù, mò vediamo, tanto abbiamo un casino di roba. Basta che mi tolga davanti il pesce e dopo ci penso io.
– Vabbè, sei tu lo chef! Allora io vedo se c’è qualcosa da fà e poi me sto su. È arrivato il tonno?
Barberi gli risponde di si.
– C’è da mettere su un po’ di zuppa e da fare la passparout che sta finendo. Magari stasera alla signora le facciamo assaggiare quella nuova – mentre mette l’ultimo filetto nel contenitore e ad una ad una, ha tolto le spine con la pinzetta. – Al brodo ci penso io, e pure alla Gassier. Tu vai sopra e controlla tutto. Poi vi raggiungo.
Loro annuiscono e se ne vanno. Cotugno si porta dietro il tortino poi si gira, e schioccando il pollice con il medio di tutte e due le mani, fa:
– Maaaaa…
– Dopo Cotugno, dopo.
E se ne vanno.

Barberi mette le bacinelle forate con il pesce in cella per farlo asciugare e sale su, mentre nella testa continua a macinare quello che possono preparare stasera. Il guaio adesso è il caldo.
A quest’ora il termometro comincia ad avvicinarsi ai quaranta gradi. La cappa funziona, il fatto è che non ha il motore ed è attaccata al sistema di aerazione dell’albergo quindi, potenza di aspirazione vicina allo zero.
Lo scorso anno, dopo varie minacce di autosospensione dal lavoro da parte di tutti i cuochi del ristorante nei confronti delle alte cariche della struttura, si sono visti entrare in cucina l’Operation Manager con due ridicolissimi ventilatori, per ovviare al caldo, disse.
Ma vaffanculo!
Hanno trovato una più felice collocazione volando via dalla scala antincendio.
In ascensore incontra Miluzzi che intanto era sceso a prendere i pomodori e gli chiede se ha pensato all’appetizer. L’altro lo guarda e gli dice:
– Avrei pensato di fare una bella spuma di cervello d’agnello con sguardo fiero!
E Barberi gli risponde:
– E lo sguardo fiero che cosa sarebbe?
– L’occhio candito appoggiato nel piattino oppure messo sulla spuma nel bicchiere, come una ciliegina! Oppure, te la immagini una confettura di occhi che ti guardano tutti attraverso il boccaccio? La servi così, sul tavolo dei clienti, con una bella selezione di formaggi, magari un bel Pecorino o il Cacio del nonno tutto marcio de vino, sennò un lonzino de maiale che ha sgozzato mio zio quest’anno che ci stanno ancora le salsicce de fegato secche sott’olio, poi dobbiamo organizzà ‘na cena a casa, sai ‘na cosa così tra intimi, un bel bicchiere de vino rosso, quello rustico che te lo senti che stà a scenne, ‘na cannetta e dopo possiamo pure ritornà a lavorà, no? Che dici?
Lo guarda. Miluzzi prima rimane serio, poi si mette a ridere e gli fa:
– Barberiiiiiiiiiii!
E ridono.
Fottuto rivoluzionario del cazzo!

Quasi tutti i giorni a pranzo, dovevano preparare da mangiare per l’equipaggio di una compagnia aerea, una manica di rompicoglioni che dovevano andare via alle 14’00, e che all’una arrivava al ristorante.
Alle 13’45 dovevano gia aver mangiato. Nessun problema per loro, anche in quindici minuti riuscivano a farli mangiare, merda cucinata bene, ma pur sempre merda. La pasta la mangiavano scotta e stracondita con Parmigiano, se la chiedevano piccante ci mettevano un sacco di peperoncino e aglio e prezzemolo tritato; la bistecca era un bordello perché era l’unica cosa che mangiavano in quantità industriale con le patate fritte o al forno, e la cucina diventava quella di una steak house in cui il fumo, grazie al condotto d’aspirazione che non funzionava, stagnava e si poteva tagliare con un coltello, e per farlo andare via ci volevano buoni dieci minuti di oblò e porta aperti. Poi come dessert, macedonia a volontà e tiramisù surgelato. Ogni dieci minuti ne arrivava uno o in coppia. Erano in sette, a volte in otto. E se arrivavano contemporaneamente clienti alla carte o il direttore a pranzo con degli ospiti, oppure c’erano anche colazioni di lavoro, diventavano una vera scocciatura. Se un equipaggio veniva alle 13’00, automaticamente ce n’era un’altro che arrivava alle 15’00 e anche questo non era mai puntuale. Si presentava a volte alle 15’30 abbondanti costringendo così i cuochi ad allungare la loro permanenza in cucina, e nell’ultimo periodo tutti quanti volevano uscire il prima possibile.

Anche oggi nessuna eccezione. Alle 13’00 arriverà l’equipaggio e c’è pochissimo tempo per finire di preparare la linea. Miluzzi va subito in ufficio a prendere la macchina del gelato, la sistema sul piano vicino al banco di lavoro di Barberi e la accende. Ha già preparato il composto per quello che era il dessert più gettonato del ristorante: Sorbetto di limone al Moscato e aceto di lamponi che ottenevano mettendo a macerare per una settimana dei frutti di bosco freschi con la grappa che Barberi furtivamente prelevava dai camerieri perché costava troppo, dicevano. Nel succo di limone che usavano per il sorbetto mettevano, oltre che i fiori di lavanda o di rosmarino, anche la buccia tagliata a brunoise in modo tale che diventasse ghiacciata e croccante; poi al momento in cui lo chiedevano, frullavano il sorbetto con un goccio di spumante, una foglia di menta, una di basilico, l’aceto di lamponi e uno dei frutti di bosco macerato nella grappa. Dissetante e stuzzicante, era uno dei dessert che faceva brillare gli occhi quando sentivano sulla punta della lingua l’effetto frizzantino che ne risultava dalla combinazione di tutti quegli ingredienti.
Nel frattempo Barberi comincia a sistemare la sua roba nei frigoriferi: la carne, le verdure, il ricambio delle erbe che a malapena respirano ancora, visto il caldo, e poi va fuori ad innaffiare i quattro vasi di erbe, due con il timo e due con la maggiorana. Lo Russo come sempre sale dalla mensa e per andare in sala passa dalla cucina. “Che maitre!” lo sfotte Miluzzi. E lui, parafrasando il Benigni di La vita è bella, fa una giravolta su se stesso aprendosi la giacca nera e mettendo in mostra i muscoli in tensione sotto la camicia perfettamente bianca, e dice:
– Ma dove lo trovate un maitre più bello de me! Sono bellissimo! Stupendissimo! – con la voce stridula.
Mentre la bossa nova di Nicola Conte comincia a saltellare nell’aria, Miluzzi mette a posto la sua, di roba: la misticanza, le salse, i desserts e il reparto dei formaggi e delle mostarde. Mostarde di cipolla rossa, o peperoni e arance, e quella di pomodori camone, oppure quella di cocomero. Non si parlano, se ne stanno in silenzio a canticchiare con i loro pensieri. Ogni tanto si lanciano quello che capita: zucchine, padelle, mestoli, pinze, per vedere se i riflessi sono pronti, per far scattare l’adrenalina, perché a volte la cucina sviluppa un’agilità di movimenti che neanche un karateka si sognerebbe. Questo si agitava nella loro testa.
Si apre la porta.
– Allora ragazzi, come va?
È il nuovo direttore, il risanatore economico di questo albergo che per poco non sprofonda nel limbo delle aziende presenti nelle liste nere di tutti gli uffici di collocamento, comprese le agenzie interinali. Barberi gli si avvicina con un grandissimo sorriso e la mano tesa.
– Buongiorno signor Gioioso – e gli stringe la mano in maniera energica. Alto, ben piazzato, con una leggera pinguedine e le guance gonfie, venne soprannominato Poldo come il mangiatore di panini di Popeye. E in effetti dà quell’impressione: entra in cucina che ha sempre fame e mangia tutto quello che gli capita sotto tiro, a stento Barberi si è trattenuto dall’amputargli una mano con uno dei suoi coltelli.
– Io, quando entro dentro questa cucina, sto bene! Perché voi lavorate tanto e siete sempre sorridenti e sereni, si vede che vi piace fare quello che fate – fa lui dall’altra parte del pass.
Poi si gira e ritorna da dove era venuto.
– Ma che ha detto? – chiede Miluzzi.
– Ha detto che gli fa piacere che lavoriamo, che è contento che pure noi siamo contenti.
– Ma che s’è rincojonito?

Si sono fatte le tre del pomeriggio. Intanto arrivano il Punk e Stefoni, poi alle 18,00 attaccherà Saulle.
Stefoni, un ragazzone alto e grosso, o quasi. Prima di arrivare in questa cucina la scorsa estate, lavorava in una mensa in cui raccontava di aver contribuito ad uccidere una capra in un modo alquanto macabro e crudele insieme al suo datore di lavoro. In fondo alla cucina in cui lavorava, c’era un portellone che dava su uno spiazzo dove c’erano delle bestie, pecore e galline, e il suo datore di lavoro, un certo Giuliani, decise che era ora di preparare un ragù di capra. Così aprì a mezzo il portellone attirando la povera bestia con del cibo fino a quando la testa non si venne a trovare dentro la cucina. Fu in quel momento che Giuliani, senza perdere un attimo, chiuse con violenza il portellone rompendo l’osso del collo all’animale. Stefoni assicurava che le urla si potevano sentire fino al Vaticano. Ecco la persona adatta a lavorare qua dentro.
Il Miluzzi durante il servizio ha pensato all’appetizer che stasera sarà Petalo di pomodoro candito con crema Guacamole e pasta fresca croccante, il tutto con una goccia simpatica di salsa passpartout. Intanto arriva il secondo equipaggio.
Barberi sta pensando ancora al menù della signora Gassier, cosa fare per renderlo interessante. In cucina ci sono fuoco e fiamme. Un calore insopportabile e il fumo delle bistecche che la cappa proprio non ce la fa. Arrivano i camerieri del secondo turno, passano casse di vino e acqua da una parte all’altra mentre piatti si riempiono di bistecche e patate cotte nella maniera più becera possibile nel senso buono del termine, il pane pucciato nel sangue che si accumula nei vassoi d’acciaio. Il Punk si avvicina a Barberi, piercing sulla lingua, già sudato che gli stringe la mano e gli fa con un gesto della mano libera:
– Ma com’è tutto questo bordello! – con l’accento biscegliese e Barberi che non risponde.
– Oh! Ma ti sei tagliato i capelli…uagliò, tu non sei normale – e ride.
– Che cazzo ti ridi?
– Niente, così.
Stefoni altissimo.
– A chef, che c’è da fa?
– La signora Gassier, due persone.
– Sti cazzi! – fa lui ridendo e mettendosi la bandana. – Allora ce sta da menà le mani stasera…ma ce sta pure Renzo?
– E secondo te, se non ci fosse stato Renzo…- gli risponde Cotugno.
– Quanto me sta sur cazzo quello chef, guarda te giuro che se lo pijo fra le mani…
– Ma che cazzo devi fare tu, imbecille! Guai a voi se vi permettete – risponde stizzito lo chef. – Voi dovete fare quello che dico io e basta, cioè dovete lavorare e non rompere i coglioni.
– Barbè, ma che stà a dì! – il buon Miluzzi.
Li guarda un po’.
– Andiamo in ufficio, và! Che vi dico il menù.

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SERIAL KITCHEN – 4 PUNTATA

7. SECONDO PIATTO. ASSAGGINO

– Chef ?! Il cliente del 16 dice che l’entrecote la vuole più cotta.
– Ma non la voleva al sangue?
– Si, ma la vuole più cotta.
– Ma è un coglione! Cosa cazzo si mangia, la soletta della scarpa?
– Ma a te, cosa cazzo te ne frega, scusa…fagliela più cotte e basta!
– Ma così è perfetta, cazzo! Guardala: è tenerissima.
– Hai rotto i coglioni! Mi vuoi cuocere ancora un po’ questa cazzo di entrecote?
– Cotugno, mettigliela nel microonde, a questo cazzone. Un minuto e mezzo. Massima potenza!

“In ogni arte, e ciò vale anche per la cucina, la grande raffinatezza consiste nella sintesi e nella semplicità. Evidentemente è necessario rifarsi alla tradizione, ma bisogna dimenticarla senza tradirla per ignoranza o negligenza o per non volerne tener conto. È così che si diventa dei cuochi senza pregiudizi, degli “anarchici” che nella confezione di un piatto riconoscono solo la legge dell’equilibrio imposta dalla natura”.

Henry de Touluse Lautrec

8. TUTTO PIU’ GRANDE E PIU’ BUONO IN SRI LANKA!

Miluzzi lo raggiunge nel garage.
Barberi ha un Free della Piaggio e lui una Vespa del 1972 bianca del nonno, perfettamente funzionante. Insieme vanno al bar sotto casa a fare colazione.
Veramente Miluzzi ci va tutte le mattine.
A Barberi il caffè del bar non tanto piace, però quando la caffettiera si versa, non può fare a meno di andarci.
Dal garage al bar la strada è contro senso e già fanno qualcosa che non è tanto normale. Come degli indemoniati, schizzano tra le persone che di corsa vanno a prendere l’autobus o vanno a lavorare e di botto frenano proprio davanti all’entrata. Stefania è una signora molto affascinante, bionda, sui quaranta passati. Molto più giovanile della figlia che la aiuta dietro al bancone. Li accoglie con un sorriso enorme, cosa che invece la figlia, di cui ancora dopo tre anni ignorano il nome, non fa mai. Ormai li conosce e non fa caso alle motorette e alle loro facce schizzate e stravolte dalla stanchezza e dal sonno. Un caffè per Barberi e un cappuccino con cornetto per il Miluzzi. Uno dei motivi per cui viene di rado in questo bar oltre al caffè, è quello di non voler rivedere e risentire lo stesso vociare delle donne che sente dal letto e che intanto si è spostato di venti metri. Queste giovani mamme avranno diritto anche loro alla colazione, o no? E’ solo che Barberi non le sopporta. Ad alta voce parlavano sotto il balcone, e ad alta voce continuano a parlare davanti al bar.
Così.
Non ci riesce proprio.
Allora rimontano sulle motorette lui e il Miluzzi, e se ne vanno.

All’entrata del personale c’è una bilancia che utilizzano per pesare la merce che arriva.
Barberi ci si pesa.
Ridacchiando.
57 chili con tutti i vestiti. Quando è entrato qua dentro a lavorare, ne pesava 70.
Il Miluzzi prende l’ascensore e lui le scale cantando allegramente come tutte le mattine. Si ferma in lavanderia ma come al solito è chiusa. Lo spogliatoio è il solito troiaio d’acqua per terra e asciugamani e stracci sparsi della sera prima. Che vengono lasciati qui per giorni perché anche il personale delle pulizie è stato ridotto. Naturalmente la colpa ricade su di loro perché sono gli ultimi ad andare via. Inoltre, si rubano gli asciugamani dai cestelli depositati dalla lavanderia nei corridoi perché non glieli passano, neanche se li chiedono.
Apre l’armadietto.
L’interno è come Barberi: sconvolto. A destra l’asciugamano appeso con la scorta sotto, a sinistra la divisa. Il ripiano superiore invece, è un deposito di shampoo, bagnoschiuma, pinze per i capelli, bottoni, buste paga, videocassette, monetine sparse, bandane azzurre e carte appallottolate.
Si infila i pantaloni, slabbrati e consumati sulle ginocchia,
Miluzzi è già cambiato. Barberi ci mette sempre un po’ più di tempo perché deve sistemare i capelli. Così prende tre forcine e va davanti allo specchio. Scioglie i capelli, poi li ripassa tre volte in un elastico e li alza sulla testa formando una palla strettissima che fissa con le tre forcine. Tipo samurai.
Si guarda.
Decide che è ora di tagliarli, i capelli. Chiede a Miluzzi le forbici e ritorna davanti allo specchio. Li scioglie ancora e si guardo un’ultima volta. In altri tempi gli sarebbe venuto da piangere e ricorda una sua ex fidanzata che non voleva farglieli tagliare perché “è la prima volta che sto con un ragazzo con i capelli lunghi”, poi li guarda ancora e…ma si! Ma chi cazzo se ne frega. Dei bei colpi di forbice ben assestati e voilà, il gioco è fatto, mentre Miluzzi lo guarda incredulo e con quei capelli schizzatissimi.
Gli viene da ridere.
– Mò me sembri proprio un modello de Calvin Klein – gli fa.
– Si, un pornostar – gli risponde Barberi.
Si spazzola bene la maglietta guardandosi ancora incredulo.
Infila la giacca, chiude l’armadietto e salgono in cucina.

La cucina del ristorante sarà grande forse dieci metri quadrati, ci lavorano in sei. Uno in più è di troppo. È perfettamente lucida. L’acciaio brilla alla luce del sole che entra dall’oblò che si affaccia sulla piscina. A quest’ora c’è ancora un po’ di aria fresca, ma fra un po’ qua dentro comincerà a far caldo.
Barberi si avvicina all’oblò per guardare fuori.
La piscina è ancora chiusa e sui bordi vanno avanti e indietro i due bagnini con gli asciugamani puliti e le sdraio. Intorno c’è un bel verde. Sembra di essere veramente isolati. Più in basso c’è un boschetto di alberi da sughero dove è piacevole andarsi a stendere il pomeriggio, in mezzo all’erba alta e il cicalare immenso e ipnotico.
Accende la radio. Questo è il periodo fisso degli Interpol. Alza il volume e comincia a togliere i lucchetti dai frigoriferi. Miluzzi accende tutto, fornelli, griglia, bollitore, e controlla le temperature. Barberi si sistema il grembiule e guarda dentro ai frigoriferi annotando quello che c’è da fare su un post-it giallo: il colore ideale per svegliare il cervello. Poi insieme vanno nell’ufficio a recuperare il carrello lasciato lì la sera prima. Un semplice bagno del personale dove andavano a fumare seduti per terra e dove adesso hanno messo una piccola libreria, una sedia scardinata per gli ospiti, una tavola di legno coperta con una tovaglia etnica su due aste di ferro, chiuso la porta del water, ed è diventato un posticino tranquillo in cui consultare libri, fare menù, fumare le canne e diventare creativi
C’è anche un quadretto di Shiva e Ganesh regalino di Sandro e Rhavi, i due lavapentole dello Sri Lanka. “Tutto più grande e più buono in Sri Lanka”, ripetono in continuazione. E hanno ragione.
Accendono il bastoncino dell’incenso e scendono nella cucina centrale dove viene sventrato il pesce, pulita l’insalata e vengono fatte le preparazioni più impegnative.

Oggi dovrebbero arrivare un tonno da 100 kili, una ricciola da 30, 20 spigole, i fasolari, le seppie e le triglie, più qualche altra puttanata che sicuramente Antonio il pesciarolo, cercherà di rifilare a Barberi. Sicuramente qualche merluzzo, visto che conosce bene i suoi gusti, oppure qualche rana pescatrice mastodontica.
Il grosso viene preparato la mattina, in modo tale che i due che gli daranno il cambio nel pomeriggio possano rifinire il lavoro iniziato da loro e pensare all’appetizer del servizio serale.
C’è un bordello nella cucina centrale!
Cuochi che frettolosamente schizzano in tutte le direzioni, coltelli che battono a ritmo frenetico e il clangore metallico delle pentole sbattute e delle placche. Le voci si mischiano ai discorsi degli altri ad alta voce, da una parte all’atra della cucina si fanno discorsi senza senso per spezzare la tensione, si guarda l’orologio appeso al muro che inesorabilmente cammina senza pietà. E intanto sono le dieci e mezza e il verduraio ancora non arriva. C’è da pulire l’insalata, spidicinare i pomodori, cuocere le patate…e intanto i due smadonnano e cercano di fare altro.
Il Gazzola si accorge del new look di Barberi, gli va vicino e lo guarda con i suoi occhi celesti e il suo sorriso bianchissimo.
– Ma…non avrai mica tagliato i capelli?
– Non mi dire che si vede – gli risponde mentre rimane ancora un attimo a guardarlo, si mettono a ridere insieme, poi lui se ne va scuotendo la testa.
Bisogna fare la besciamella e il creme caramel alla liquirizia e la crema inglese e la minestra fredda di patate, e il carrello si riempie sempre di più di roba da portare su.
Dice al Miluzzi di pensare all’appetizer, intanto.
Lo guarda.
Sa cosa significa quello sguardo, ormai lo conosce bene. Significa “cazzo sono nella merda, e tu mi chiedi di pensare all’appetizer? E quelli di oggi pomeriggio poi che cazzo fanno? Okkei ci penso io”.
Prima ci pensava Barberi all’appetizer, rimaneva interi pomeriggi in cucina a prepararlo, a studiare in mille modi un biglietto da visita della loro cucina, qualcosa che scioccasse da subito i clienti, che li incuriosisse senza schifarli; qualcosa che dicesse loro “Ehi! Noi siamo il vento della freschezza e della novità”. Ecco quello che volevano dire. Non sapeva a cosa andava incontro. Così si inventava le terrine di fegato di merluzzo marinato al Porto rosso con il lardo di Colonnata perché non potevano permettersi il foie gras, oppure l’insalata tiepida di ceci con filetto di merluzzo scottato e pomodoro candito. Le alette di pollo disossate e farcite con un trito di funghi porcini e gamberi e poi servite con la loro immancabile salsa passpartout.
A volte con lui rimaneva il Punk, tatuaggio sul braccio e piercing sulla lingua, alle orecchie e sul glande.
Approccio alla cucina: punk anarchico. I suoi piatti erano un omaggio all’arte moderna e alla povertà contadina, un binomio che può sembrare senza capo né coda, ma era questo il senso che volevano dare a quello che facevano, come far stare in piedi la millefoglie di pomodoro camone disidratato e tonno fresco senza che questa cadesse giù, per esempio.
Il Punk era bravo a fare i riccioli di zucchero, si impegnava tantissimo a prepararli: faceva un caramello trasparente con il glucosio che poi faceva filare nell’alcool etilico ghiacciato in modo che si arricciasse. Ma la cucina era troppo calda e umida d’estate, e i riccioli resistevano più o meno cinque secondi fuori dall’alcool.
Altre due erano le specialità del Punk: il Papa e il carciofo.
Di domenica, quando tutti i capi massimi dell’albergo erano con le loro mogli, lui si metteva addosso una tovaglia gialla e il cappello al contrario, proprio come il Papa. Poi prendeva un mestolone, si metteva in ginocchio su un carrello e andava in giro per la cucina a dare la benedizione spinto da Sandro. Il bello è che al Papa ci assomigliava davvero. Faceva un qualcosa che assomigliava ad una benedizione con la mano e poi si fermava davanti ad una pentola. La domenica era anche il giorno in cui a turno, i ragazzi si preparavano da mangiare qualcosa di estremamente povero. Allora ecco che Cotugno preparava i bucatini alla gricia, o il Punk le brasciolette di cavallo come le fanno a Bari, con il “grascio” dentro e lo stuzzicadenti, e il Sabatini la polenta con la spuntatura di maiale. Il Punk non poteva fare a meno di far finta di benedire quelle pietanze saporitissime che permetteva, per una volta, di sedersi insieme e guardarsi negli occhi.
Il carciofo era invece un enorme spinello che prendeva questa forma nelle sue mani abili. Con un biglietto del treno faceva un lungo filtro che era lo stelo, poi con quattro o cinque cartine arrotolate come solo lui sapeva fare, componeva il cuore ripieno di mistura. Anche la foglia sullo stelo faceva. L’avranno fumato tre volte insieme, distesi come due Giuseppine Bonaparte rilassate e paciose sui loro letti. E mentre le loro menti sbattevano da una parte all’altra, si inventavano piatti che non esistevano, come Cornetto Algida candito all’asfalto con salsa di copertone fuso e lacrima di bimbo che ha perso il ciucciotto.
Barberi adora lavorare con soggetti così, gli trasmettono serenità e voglia di inventare, lo stimolano dal punto di vista creativo e la sua vita privata è un po’ meno solitaria.

Nello stesso periodo facevano parte della brigata Fiorentino, un ragazzo di Teano diplomato in ragioneria con la passione della cucina, e Molinaro, come Barberi appassionato di musica elettronica e ciclista sfegatato semiprofessionista.
Fiorentino ne combinava di tutti i colori. Anche lui era un amante della cucina casereccia, ma alternava a giornate di grande creatività, momenti di estrema pigrizia fisica e intellettuale. Una delle cose che sapeva fare bene era la minestra di patate con gli spaghetti spezzati o con i tubettini, bella e buona, “azzcus azzcus” come dicono a Napoli. Quando preparò per la prima volta questo piatto, a Barberi gli si illuminarono gli occhi e si emozionò perché gli vennero in mente la madre e il calore di casa: nella sua semplicità, questa minestra era un perfetto connubio di sapore e consistenza, aveva pienamente soddisfatto il suo desiderio di stare bene e di sentirsi per un attimo fuori dalla cucina del ristorante, lontano dal grigio luccicante dell’acciaio e dalla luce diafana del solito neon.
Raggiunse l’apice della sua pigrizia l’ultimo periodo in cui lavorò al ristorante. In menù avevano degli Spaghetti alla bottarga di muggine con chips di aglio e mandorle dolci tostate. Era un piatto semplicissimo, ma le chips di aglio avevano una preparazione impegnativa perché bisognava tagliare a metà l’aglio e eliminare il germoglio interno, causa dell’effetto “sali e scendi”, tagliarlo in lamelle sottilissime e sbollentarlo per due o tre volte nel latte; dopo si friggevano nell’olio fino a che prendevano un colorito biondo, e si mischiavano con le mandorle tostate sotto la salamandra o in padella. Fiorentino, che spesso si dimenticava o non aveva voglia di prepararle, man mano che diminuivano aggiungeva solo le mandorle. Spesso si imboscava a fumare una sigaretta e veniva sempre beccato, oppure bisognava costringerlo a fargli ripetere i piatti cinque o sei volte prima di farli uscire in sala, perché si vedeva che erano fatti così tanto per farli, senza nessuna dedizione.
In quel periodo avevano un bel modo di presentare la carbonara. Facevano sudare lentamente il guanciale in padella in modo tale da farlo diventare saporito, croccante e allo stesso tempo una “scioglievolezza”, in cui saltavano gli spaghetti che poi andavano a finire nello zabaione preparato in una bastardella con il pecorino e con una bella manciata di pepe nero pestato, che così ha un sapore completamente differente da quello macinato. Lontano dal fuoco, l’uovo si rapprendeva con il calore degli spaghetti senza cuocersi; poi li facevano riposare un attimo e li arrotolavano con un forchettone in modo tale da formare una torretta che rimaneva perfettamente in piedi, complice l’effetto collante dell’uovo con il pecorino e l’amido della pasta. La decorazione era fatta con un rettangolo di carta da forno accartocciato, ridisteso e inumidito, poi passato velocemente sulla piastra per ottenere un effetto marmorizzato, e il guscio dell’uovo sterilizzato nell’acqua bollente dentro il quale veniva messo un po’ dello zabaione che avevano utilizzato per gli spaghetti. Effetto roccaforte.
Molinaro invece era di tutt’altra pasta.
Lo chiamavano il pirata come Pantani, proprio per la sua passione nei confronti della bicicletta. Ci veniva a lavorare la mattina, in perfetta tenuta da ciclista con caschetto, scarpette e tutina aderente, con le gambe completamente depilate. Aveva la capigliatura foltissima e riccia, il naso come Battiato di cui lui era grande ammiratore tanto da chiamarlo maestro, e amava la cucina.
C’era grande intesa tra Molinaro e Barberi, complice il loro comune interesse per la musica e le disquisizioni filosofiche fatte a fine lavoro, ad un orario improprio, con l’occhio pesto, una bottiglia di birra e uno spinello di erba che lui diceva sempre “no guarda, non posso! Mi viene la tachicardia”.
E poi fumava.
Aveva una particolare abilità nell’imitare la voce di chiunque gli capitasse sotto tiro. Quando c’era lui in cucina, alla radio c’erano sempre dischi di musica elettronica e reggae, spesso drum e bass abbastanza tachicardica, cosa che poi è andata avanti nel tempo perchè creava la giusta ritmica per fare il servizio. Specialità di Molinaro: fare i primi, soprattutto linguine con pesto di rucola e ricotta marzotica. Erano di un verde brillante mai visto prima, sapeva utilizzare al meglio la tecnica di fare il pesto a freddo mettendo olio e contenitore in frigo, ed era velocissimo nella preparazione tanto che la rucola non solo rimaneva verde, ma addirittura assumeva una tonalità che con la luce bianca risplendeva, e per assurdo tutti lo prendevano in giro mettendosi gli occhiali da sole, quando lo faceva. Così arrotolava le linguine attorno ad un forchettone formando un gomitolo che poi adagiava su un piatto nero e lo copriva con una manciata di ricotta grattugiata al momento che sembrava neve.
Il tocco finale del piatto era una fettina trasparente di pomodoro camone disidratato, tipo stella cometa sull’albero di Natale.

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Antonio Bufi

Antonio Bufi nasce in quel di Molfetta, una ridente cittadina che si affaccia sull’Adriatico, una manciata di anni fa. Dopo aver provato a far volare dal balcone aeroplanini fatti con i fogli su cui scriveva i sui pensieri imberbi, rimane folgorato come Paolo sulla via di Damasco dalla buccia di limone che sua madre usa per la crema pasticcera...

Valentina Pelizzetti

Valentina Pelizzetti nasce in quel di Torino, una verde cittadina attraversata dal Po, pochi anni dopo Antonio. Dopo aver sognato invano di essere la Carla Fracci de' noiartri si scrive ad architettura...