serial kitchen

DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – fine

Sono stanco, voglio ritornare a casa e prepararmi una bella tazza di thè, accendere una bacchetta di incenso, chiudere la finestra e stravaccarmi sul divano senza avere niente a cui pensare. Fermarmi un attimo, almeno io, che tanto a fermare il mondo, quello non ci riesco a farlo.
Semafori sadomaso che non vengono più rispettati, motori accelerati e uomini sempre più maleducati nelle loro parolacce mentre attraverso la strada, questo incontro sulla via: strombazzamenti che mi stordiscono insieme alle troppe parole ascoltate e lette oggi, troppe puttanate, troppi affannosi pensieri che non riescono a dileguarsi. Che vita di merda! continuo a ripetermi, ma so che non è così. Quest’anno avremo un’altra estate torrida, si vede dalle nuvole che ci sono sulla mia testa, da questo accanimento pluviale che mi fa venire il torcicollo nel cervello mentre dovrei cominciare a preparare i registri in vista degli scrutini ma non ne ho voglia, voglio sprofondare, ecco, magari trovo un tombino aperto e inavvertitamente ci casco dentro procurandomi una frattura mortale. Sicuramente di questo incidente se ne gioverebbero i miei genitori turisti, visto che tutte le assicurazioni che pago ogni mese sono intestate a loro nome. Chissà se almeno i fiori me li portano, al camposanto! Sottoterra, mi raccomando. Niente lapide e stele funeraria, solo vermi che entrano ed escono senza imbarazzo dalle mie cavità ossute.
Invece, al posto di un tombino aperto mi ritrovo Scianga senza stampelle appoggiato alla sua macchina, lo vedo dall’inizio della strada che imbocco, il piccolo corridoio che separa i due palazzi, dove non passano le automobili e i bambini giocano a palla e gli stendipanni sono sparsi e le signore confabulano da un balcone all’altro e tutto si ferma un attimo mentre passo, non so perché ma ho questa impressione. Vedo Scianga che si agita e mentre mi avvicino sembra che voglia dirmi qualcosa, si agita e vorrebbe stare dritto mentre continuo a camminare verso di lui e comincio ad intravedere una sagoma nera, la volante dei carabinieri di stamattina parcheggiata ancora una volta sul marciapiede e davanti al mio portone. Agitati pure, caro il mio Scianga, perché ora non sono più capace di intendere e di volere, mentre entro nell’atelier del segaossa con il ringhio nervoso del cane del contadino lambrettato che la mattina va alla cambagna, e scusatemi tanto cari i miei carabbinieri nel regolare esercizio delle vostre funzioni, ma adesso mi avete stufato perché io devo entrare dentro casa, che non ce la faccio più quindi voi due ora spostate il vostro culo in uniforme e togliete subito la vostra volante, che il nostro caro amico segaossa adesso ve la prepara la fettina di carne per le vostre mogli che evidentemente non sono soddisfatte della vostra, di carne. Che non per niente il nostro segaossa qui presente è titolare di una macelleria equina, quella giusta per le vostre donne. Ma tu, segaossa, hai questo ghigno che non mi convince mentre fai il giro del bancone sfregando il tuo coltello contro l’acciaino, un dèja vu imbarazzante, che sta cominciando a farmi venire la pelle d’oca e anche voi carabbinieri, avete un sorriso che si sta trasformando mentre mi venite incontro e alle vostre spalle vedo affacciarsi all’entrata Scianga, Michele il pazzo, il contadino cambagnolo con il suo cane latrante, i miei vicini, Donata, Mimì e il gatto bianco, e all’improvviso capisco tutto, mentre mi trovo perduto e indietreggiante e mi viene in mente il film Delikatessen, ma non ho più posti in cui andare tranne che il muro piastrellato bianco contro il quale mi appoggio mentre uno dei carabbinieri estrae la pistola e l’ultima cosa che vedo è un bagliore folgorante, bianco come la purezza.

Poi distolgo lo sguardo. Il sole mi sta accecando, così guardo in giù, verso il mare e il promontorio del Conero. La spiaggia è bianca e in lontananza vedo una cascina blu, il Clandestino, appoggiato sugli scogli e sotto l’ombra della torre. C’è un buon profumo nell’aria, i miei piedi sprofondano nel terreno argilloso umido e nelle spighe di grano ancora verdi.
– Allora, ti decidi a venire o no? – sento alle mie spalle. Così mi giro e vedo il cielo viola all’orizzonte contro il quale i capelli ricci della mia amica si muovono come tentacoli. Mi giro ancora verso il mare e scatto una foto. Sembra di essere sulle bianche scogliere di Dover.
– Arrivo! – dico ad alta voce.
Si, arrivo, ripeto mentalmente. Mentre mi avvicino a lei con i piedi pesanti di fango, le stringo la mano e le dò un bacio tra i capelli profumati di salsedine.

Dissolvenza in nero.

“ Well, you get up every morning
and you see, it’s still the same
all the floors and all the walls
and all the rest remains
nothing changes fast enough
the hurry, worry days
it makes you want to give it up
and drift into a haze

revelations seems to be another way
to make the days go faster anyways… “

Husker Du

Quando la realtà supera di gran lunga la fantasia – titoli di coda

Tutto quello che è stato narrato in questo racconto è assolutamente vero…vi sembra strano? Eppure è così. Naturalmente colpo di pistola esploso dagli sbirri a parte! Volevo raccontare di un determinato momento storico sia della mia vita che italiano: la riforma scolastica dela Moratti. Alejandro Jodorwsky lo definirebbe un atto panico, il bisogno di esorcizzare, scrivendo, un momento di crisi non solo interiore. Diciamo che mi è servito come cura, e non solo a me (tu sai di cosa sto parlando, vero R. ?).
Naturalmente c’è un po’ di tutto, la realtà, la fantasia, la cucina, il caffè ma soprattutto Molfetta, la città che amo con le sue contraddizioni e i suoi abitanti che per quanto alcuni di loro siano alquanto bizzarri, rendono le giornate piacevoli e divertenti (senza riderne troppo, si potrebbe rischiare di non tornare a casa, la sera, con tutte le ossa intere…).

Questo racconto è dedicato a Raffaella. La descrizione del Prof. Linguetti e del Sistema Olistico è sua.
E anche dedicato a Scianga e al Lambrettato, che intanto sono passati a miglior vita.

Il segaossa: in realtà sono due fratelli, uno ha una macelleria equina e l’altro una generica in due parallele sotto la casetta dove si svolge la storia. Ho frequentato quella strada per anni visto che la stanza in cui suonavo con i miei amici si trovava esattamente al centro delle due. Se avessi potuto li avrei evirati. Ho sempre visto in loro degli sporchi maniaci. Sarà forse il contatto con la carne? E poi mi prendevano sempre in giro…almeno, l’avessero fatto guardandomi negli occhi!

I carabbinieri: degni compari dei due segaossa, erano sempre nella macelleria equina, non ho mai capito a far cosa, con la volante parcheggiata sul marciapiede a bloccare l’entrata del portone. Ho realmente avuto un alterco come quello descritto, ma non erano loro e non nel segaossa equino.

La mia migliore amica: era in realtà la proprietaria di casa e la vera protagonista del racconto. È lei la maestra e io le ho pitturato la casa con indosso un camice bianco che mi faceva assomigliare ad una via di mezzo tra uno dei teletubbies e uno spermatozoo. Però sono venuti bene, i muri!

La banca: è inutile che vi dica quale sia, a Molfetta penso ce ne sia solo una con il siluro ad impronte digitali. Giuro che quando sono entrato in banca e mi sono sentito fare quelle richieste dalla vocina computerizzata, non ci potevo credere. Non so se utilizzano ancora lo stesso sistema, intanto ho cambiato banca. Ci sono davvero entrato scalzo, non ne potevo più.

Il cassiere: ora, arrivati a questo punto, se tu ti riconosci in questa descrizione ti prego, non volermene. Non ti sei mai fatto i cazzi miei e sei sempre stato gentile con me, era la tua “capa” a rompere i coglioni! Però dovevo usare la licenza poetica, capisci? Quindi il fine giustifica i mezzi…peace and love, amico mio.

Scianga: ovunque tu ti trovi adesso, spero che le tue gambe siano perfette. Spero che tu stia correndo sulle nuvole, spero che al posto di quella bruttissima moglie che avevi (ma come hai fatto, eh Scianga? È proprio vero che l’amore non conosce barriere…) ti abbiano dato uno di quegli angeli bellissimi…non me ne volere per le parole che ho scritto su di te però diciamoci la verità, eri un bel paraculo, eh Scianga?

Allegra Famigliola: è inutile aggiungere nulla. Sono ampiamente descritti nel racconto.

Il Lambrettato: anche tu, lambrettato mio, spero che ti abbiano regalato il giardino dell’ Eden dove i frutti non hanno bisogno di esere curati e dove sempre splende il sole. Ti immagino su una nuvola a forma di lambretta…VAI CHE SI VOLAAAAAAAAA!!!!!!!

Svetlana: io non l’ho mai conosciuta. Era una collega della mia migliore amica. La descrizione è sua. Anzi no, una volta l’ho vista, di sfuggita. Aveva davvero un seno prosperoso…

Stanley: il primo ed unico pesce rosso con la coda da squalo, le cacche da 20 cm e poeta futurista muto. Stanley, che il Grande Oceano possa averti accolto con il rispetto che meriti e che Nettuno abbia costruito per te un bellissimo anfiteatro con pulpito.

Lapis: sei proprio un coglione, oltre ad averlo piccolo…non so cos’altro dirti.

La figlia della signora Carlomagno: è la figlia della signora Carlomagno…una scassapalle micidiale. Mentre l’allegra famigliola si divertiva a tenere il volume di radio e televisione alti, nessuno si azzardava a fiatare. Bastava ascoltare un po’ di Beck per sentire il suo odore nauseabondo dietro la porta.

Donata: come sta tua figlia, Donata? È cresciuta? E tu, come stai?

Il Clandestino: difficile descrivere il Clandestino. Per me è stato il luogo della mia rinascita, sia fisica che spirituale. In un buco di cucina sotto gli scogli, ho sfornato centinaia di piatti meravigliosi. E ogni piatto è stato un mattone che ha contribuito a ricostruirmi. Il momento più bello di ogni giorno è stato quello che io chiamo “l’ora delle lucertole”, il momento esatto in cui il sole si sta avvicinando all’orizzonte e tutti i granchi escono dalle tane quasi a volerlo salutare. In quel momento mi affacciavo anch’io a perdere il mio sguardo nel blu intenso, nell’orizzonte che non si vedeva, sul bordo dell’attesa a masticare maledizioni e a piangere e a bruciarmi di quelle lacrime. Se non ci fosse stato Il Clandestino e la mia migliore amica a tirarmi per i capelli, non credo che avrei ricominciato a fare il cuoco.

Beh…onestamente non so se ci avete guadagnato!

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DELIKATESSEN (24 ore Clandestino) – 7 parte

Le sei meno venti.
Alle sei meno cinque non fanno entrare più nessuno in Posta. Alzo il passo. Cerco di prendere scorciatoie impossibili scansando in uno slalom disarticolato le persone che si affannano dietro le bancarelle dei fruttivendoli sparse qua e la, cariche di buste gonfie e passeggini vuoti dei bambini, ma strabordanti di rotoli di carta igienica e detersivi. Mi squilla il telefonino. L’amica mia bellissima.
– Amore mio…
– Oh! Ma che hai? Che stai facendo che ti sento tutto affannato?
– E che sto facendo, che sto cercando di arrivare in Posta a pagare le bollette prima che chiuda?
– E vabbè, non ci potevi andare domani mattina?
– E a scuola chi ci va?
– Ma che cazzo, a scuola non puoi andare un po’ più tardi? Ma che ti credi che senza di te non fanno lezione? Quando vogliono loro ci devi stare dalla mattina alla sera, e quando serve a te una mezz’oretta per le bollette, manco per il cazzo, scusa eh!
Cammino. Sento il mio fiato affannoso. Il braccio destro indolenzito. Con te non posso incazzarmi, lo sai che ti voglio bene. E hai ragione pure tu, però.
– Lo so, lo so…che ci posso fare se sono fatto così? Senti, adesso è andata, mò vado a pagare queste cazzo di bollette che mi hanno pure ingoiato il bancomat, e poi domani si pensa. Passi da me stasera? Cucino io.
– Che mi fai?
– Penso di avere delle zucchine, la scamorza affumicata, dei pomodorini, i moscerini…compro l’avocado che ti faccio un po’ di guacamole?
– Insomma, hai le solite cose!
– Eddai! Ti faccio la crema al cioccolato con le amarene…
– Mmmmmhhhh…che mi dai in cambio?
– E che ti do in cambio?…Dai, prenoto una cena a Senigallia per la settimana prossima, mi prendo due giorni a scuola e ci andiamo, ci stai?
– Ma dormiamo insieme?
– Se per te non c’è problema…
– Va bene, accetto!
– Ma almeno tu, mi vuoi bene?
– Certo che sei proprio stupido!
– Grazie, sapevo che potevo contare su di te. Sono davanti alla Posta. Ci sentiamo dopo.
– Fai il bravo…
– D’accordo…

– No scusi giovanotto, ha visto che ore sono?
– Sono le diciassette e cinquanta, e allora?
– Veramente il mio orologio fa cinquantatre.
– Veramente sono in orario, quindi prendo il numerino e faccio la fila mentre lei è meglio che continua a fare il suo lavoro, che io pago le bollette, se lei me lo consente. Oppure non è consentito?
– Eeeeeeeeh…quanto chiasso! Vada, vada. Che altrimenti non fa in tempo!
Ma guarda questa imbecille che mi fa rimanere di sasso mentre si gira di spalle e se ne va. Prendo il numerino. Il mio è l’ottocentosessantaquattro. Siamo al cinquantanove, tutto sommato è quasi arrivato il mio turno. Ci sono tre donne e un uomo che occupano gli sportelli aperti. Dietro i vetri, i posti sono occupati da tre donne e un uomo, guarda caso, che si vede che non vedono l’ora di andarsene via, di finire le loro canoniche otto ore passate davanti ad un terminale e a parlare con gli avventori delle bollette, casalinghe, pensionati, onesti lavoratori e imbecilli come me, che si fanno prendere la mano da questa vita tutto sommato divertente, che non ha mai un giorno uguale all’altro…ma forse mi sbaglio. All’interno della sala gli altri impiegati corrono frenetici, non ne capisco il reale motivo, o forse si, anche per loro vale il discorso di voler lasciare questo posto nel più breve tempo possibile. Un portapacchi amico mio entra con il suo carico di pacchi da registrare.
– Toninooo…- gli fa una delle impiegate – e non potevi arrivare prima?
– Ma ttu lo ssai che ttraffico che ci staa a quest’ora pper strada, o no? – risponde Tonino alla collega mentre mi guarda e mi fa l’occhiolino, in segno di saluto.
Io attendo dietro la mia linea gialla e mi sposto per far passare Tonino, che lui parla davvero così, non lo faceva apposta per prendere in giro la collega.
Ecco il mio turno, annunciato da un dlin-dlon e dal display luminoso dai led rossi: ottocentosessantaquattro.
– Buonasera! – faccio cordialmente all’impiegato uomo, mentre passo i bollettini sotto il vetro senza ottenere una risposta, anzi, comincia a fischiettare ignorandomi, si gira e se ne va.
Ma come cazzo è?
Ma non andavate tutti quanti di fretta?
Rimango sinceramente basito, immobile, incapace di pensare al perché di un comportamento del genere, ai limiti dell’educazione e della professionalità spesso ribadita e sottolineata nelle pubblicità che trasmettono in televisione.
Eccolo che ritorna. Ma neanche scusa mi chiedi? Vabbè, l’importante è che ci sbrighiamo.
– Duecentosettantotto e venti! – mi fa dopo aver infilato i bollettini nel computer.
Gli passo i soldi, anche i centesimi ti metto, brutta faccia di merda…
Il suo viso è asettico, impassibile, mentre si passa i soldi tra le dita per controllare se sono veri o falsi, e guarda me, per vedere se sono affidabile forse?
Brutta faccia di merda, continuo a ripetere mentalmente, brutta faccia di merda…poi mi dà i bollettini. Li prendo, li piego, li infilo in tasca e me ne vado fuori dai coglioni.
Brutta faccia di merda…

La notizia che più mi ha colpito oggi al TG, più di tutti i morti della guerra e delle stronzate dette dal faccione, è stata quella dell’eliminazione dai programmi scolastici ministeriali del prossimo anno, da parte della Moratti, della teoria evolutiva Darwiniana. Veramente questa cosa si sapeva già da un bel po’, ma non pensavo che si arrivasse davvero a questo. Siamo in un regime, dobbiamo per forza credere che l’uomo è nato da una scoreggia di Dio e che la donna è nata da una sua costola. Che puttanata! Allora, tutto quello che è stato studiato fino ad ora? Tutti gli esperimenti e le ricerche e le ore passate da eminenti dottori e scienziati nel dare credito a questa teoria, motivandone i risultati ottenuti con prove efficienti e robustissime?
E i miei “onestissimi e educatissimi” vicini di casa? Io mi rifiuto di credere di essere stato creato dalla stessa persona che ha dato alla vita questa gente, non per essere razzista, ma è come se in quel momento il cosiddetto Grande Architetto sia rimasto vittima di un’alitosi nauseabonda, pericolosa, giocherellona e incurante. Perché i miei “nobili” vicini di casa devono essere per forza il frutto di una mutazione genetica che li ha portati ad evolversi in un contesto culturale a loro estraneo, come gli scarafaggi che giorno dopo giorno diventano più coriacei e resistenti agli insetticidi, continuando a bighellonare e a nutrirsi di trappole altrimenti mortali. Così immagino il mondo scientifico tutto alzarsi in rivolta, manifestare con festosi e giocosi girotondi morettiani sotto il Parlamento, indossando maschere dalle sembianze di scimpanzé con in mano grosse banane e poi buttarne le bucce davanti all’entrata per far fare dei grossi scivoloni ai nostri parlamentari belli, quelli che si dice ci governino dall’alto dei loro scranni.
A questo penso mentre entro nella vetreria, fogliettino in mano e sguardo speranzoso. Forse un po’ troppo perché al mio buonasera non ottengo risposta. Il laboratorio è deserto. Davanti a me un enorme tavolo in ferro, sembrerebbe, con vari attrezzi sparsi, righelli che ho visto solo in casa del mio amico architetto, normografi e resti spuntati di vetri di vario spessore. Per terra polvere, tanta polvere. Che scricchiola sotto i miei passi gommati, quindi polvere di vetro. In un angolo alla mia sinistra, appoggiate al muro, altre lastre di vetro di diverse misure, sulla mia testa un argano minaccioso come una spada di Damocle e alla mia destra una porticina che si apre lasciando uscire (o entrare, dipende dai punti di vista) un bambino su un triciclo tipo Shining che si ferma proprio davanti ai miei piedi, mi guarda con quegli occhietti ghignanti, poi punta i piedi per terra, si dà una spinta all’indietro, fa dietrofront e ritorna da dove era venuto.
Si riapre la porticina.
Questa volta ne esce una signora graziosa che dovrebbe essere la mamma del bambino, capelli neri in una treccia lunga dietro la nuca, forse quarantenne, in saloppette e maglietta a mezze maniche nonostante il freddo. Accosta la porta alle sue spalle e si dirige verso di me con un “Buonasera, dica…” flebile che quasi mi mette in imbarazzo.
– Salve, volevo sapere se si potevano fare delle mensole di questo genere in vetro – le faccio mostrandole il foglietto piegato e pieno di disegni apparentemente regolari e pieni di numerini.
– E questi numeri dovrebbero essere le misure?
– Si – le rispondo.
– E per che cosa le deve usare? Che ci deve mettere sopra?
– Volevo metterci dei libri !
Mi guarda. A lungo e in un modo che mi sembra di essere attraversato dentro, come se mi stesse leggendo i pensieri. Poi riabbassa lo sguardo sul foglio rivolgendo di nuovo l’attenzione ai disegni.
– Gliel’ho chiesto per sapere lo spessore…si, si possono fare queste mensole però ho bisogno di un po’ di tempo e sinceramente adesso non so dirle neanche la spesa.
Rimango un attimo spiazzato. Non so cosa dirle perché almeno su quest’ultima cosa mi ha anticipato. Allora adesso, che non ho più voglia di discutere con nessuno, le dico che va bene, che non ho fretta, che mi chiami lei, ora le lascio il mio numero di telefono, se non rispondo non si preoccupi, lasci un messaggio in segreteria che poi mi rifaccio vivo appena posso, le lascio un acconto? No? Va bene, allora aspetto una sua chiamata, arrivederci…
– E il vetro, di che colore lo vuole?
– Lo voglio trasparente! – mi giro e me ne vado, ritornando a immergermi nel traffico pedone in cui cerco di perdermi con fare anonimo.
Ma non penso di riuscirci più di tanto perché spavento una vecchietta appena giro l’angolo, che si avvicina al muro stringendo a sé la sua borsetta. E mi viene da sorridere.

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 6 parte

Riprendo in mano il foglietto su cui ho ricopiato il disegno delle mensole, e mi accorgo che dietro il portapenne giace un mucchietto non ben identificato di foglietti accuratamente piegati e dimenticati: la bolletta del telefono, la bolletta della luce, la rata della spazzatura, il bollo della macchina, estratto conto della carta di credito, estratto conto di quello che rimane sul mio conto in banca, una lettera da parte della assicurazione di mancato pagamento delle ultime due rate perché la banca, che stamattina mi ha telefonato perché voleva i soldi, ha fatto un po’ di confusione con alcuni documenti, e per finire la rata invernale del gas. Ad uno ad uno ripasso tra le dita quei bollettini come fossero le figurine dei calciatori Panini. Me n’ero dimenticato, preso da tutt’un’altra serie di cose e pensieri, avevo accumulato tutte quelle bollette e le avevo messe lì, consciamente o no le avevo nascoste dietro il portapenne lasciandole fermentare ed ora è giunto il momento della resa dei conti: fra due giorni scade il termine di pagamento di bollo e telefono, fra tre il gas e fra quattro luce e spazzatura. Le rate della assicurazione è meglio non calcolarle, tanto ci pensa la banca che sicuramente fra un paio di giorni mi ritelefonerà per invitarmi un’altra volta al suo cospetto.
Che fare?
Guardo l’orologio, sono le cinque meno un quarto e se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivare in posta, pure a piedi se alzo il passo. Infilo le mani in tasca per vedere quanti soldi ho: pochi. Apro la mia cassettina porta risparmi casalinga: pochi anche qua dentro. Devo comunque passare da qualche sportello bancomat per fare un prelievo, così la banca mi ritelefona domani stesso, altro che fra un paio di giorni. Già che ci sono passo pure dal vetraio, così gli faccio vedere il disegno e sento lui cosa dice, se si può fare la cosa oppure no.
Faccio un caffè. Ho tempo pure per quello. Senza pensarci accendo una sigaretta e mentre la aspiro mi prende il panico perché ora, la combinazione tra caffeina e nicotina mi procurerà un effetto indesiderato allo stomaco che mi costringerà, come al solito a quest’ora, a correre nella toilette. Vabbè, ormai è fatta. Finisco la sigaretta. Intanto il caffè è uscito e lo bevo. Come da programma, corro nel bagno. Mentre assolvo alle mie funzioni corporali, maledico qualcuno perché devo correre e sono già sudato e non ce la faccio più a rincorrere il tempo che non vorrei essere suo schiavo, però il fatto è questo: o scendi a compromessi con la vita e cominci a correre anche tu e ti metti a fare le file ai vari sportelli pubblici, oppure mandi tutto a farsi fottere e te ne vai a vivere nei boschi, che mi sa che è meglio.
Seduto sul water.
Di fronte ho lo specchio che riflette la mia immagine. A dire il vero la riflette sempre, ogni volta che mi siedo. Ogni volta guardo il mio viso assumere pose sgraziate e le vene sulla fronte gonfiarsi, e la fronte stessa che diventa rossa e gli occhi che strabuzzano…oh Signore benedetto! Suonano alla porta, cazzo, ALLA PORTA! Ma perché? Mi viene quasi da piangere. Perché? Perché? Perché? Mi alzo, mi lavo e mi sciacquo il viso, è già tardi.
– Un attimo – grido dal bagno.
Apro la porta. Donata, una delle donne che abitano nel palazzo di fronte, forse la persona più tranquilla che mi capita di incontrare per strada quasi tutti i giorni.
– Ciao professò, che ti disturbo? – mi chiede incuriosita dal mio aspetto trafelato.
– No Donata, tu non disturbi mai, lo sai – le dico mentendo. – Stavo uscendo per andare a fare dei servizi, sai, le bollette – .
– Eh! Sono diventate un vero guaio, queste bollette. Non le reggo più, poi da quando ci sta questo euro, mi sa che ce l’hanno buttato tutto al culo…- diventa rossa in viso e si porta la mano alla bocca. – Scusa professò, e che adesso a mio marito l’hanno messo in cassa integrazione e ci sono i bambini che vanno a scuola e crescono e come devo fare, mannaggia!-
Ti prego Donata, non fare così, non metterti a piangere, cerca di trattenere le lacrime, ho fretta, ti prego non farlo.
– Su Donata, non fare così, vedrai che le cose si sistemeranno prima o poi – cerco di rassicurarla mentendo anche questa volta.
– Senti professò, il piccolo deve andare ad una festa di compleanno di un suo amichetto di classe e allora ti volevo chiedere se mi scrivevi un bigliettino per il regalo che io avrò tanto sentimento, ma proprio l’italiano non lo so scrivere – .
Benedetta Donata! Ti prenderei le guance a morsi, quanto sei tenera.
– Entra Donata, entra – e mentre le prendo il bigliettino e ci scrivo sopra qualcosa, lei mi confida -…che la figlia dei grezzoni che abitano sul pianerottolo, la piccola, quella brutta che sembra PippiCalzeLunghe con quel cesso di fidanzato, è al sesto mese! – .
Rimango un attimo fermo e spiazzato da quella notizia.
– Davvero?
– Si, davvero! E che non si vede?
– E no che non si vede, scusa. Non vedi come ci sono rimasto? E poi dove l’avranno concepito, nel portone?
– Forse!
– E adesso? Già fanno casino così, figuriamoci ora che ci sarà un altro inquilino…e poi dove si metteranno, che a malapena entrano così come sono, in quell’appartamento?
– Bho! E che ti devo dire io, professò…non pagano neanche l’affitto, non pagano!
– Ma come fate ad essere sempre così informate di tutto e di tutti? – le dico restituendole il bigliettino. – E chissà quante ne dite su di me, brutte pettegole che non siete altro! –
– Ma no professò, che su di te non abbiamo mai avuto niente da dire, tranne che fai le ore piccole con quell’amica tua bella, che è proprio bella…ma che per caso siete fidanzati?
– Senti Donata, vedi un po’ se ti va bene il bigliettino? Sai com’è, avrei un po’ di fretta – le dico con un sorrisino glissando sull’argomento. Lei lo legge e quasi le vengono i lucciconi agli occhi.
– Grazie professò, veramente. Non so come sdebitarmi!
– Ma tu non ti devi sdebitare. Basta che mi tieni informato sui vicini.
– Si professò, ci vediamo allora. Buona giornata!
– Buona giornata a te!
E speriamo.

Questo piccolo imprevisto mi fa spostare la mia tabella di marcia, devo passare dalla banca, la posta chiude alle sei. Infilo pantaloni grigi e magliettina gialla, maglione slabbrato nero, il cappotto, capelli schizzati, occhi nel panico…ricomincio ad incazzarmi. Chiudo la porta dopo aver preso carta di credito, bancomat e bollette. Scendo in strada. Sulla mia sinistra, la solita macchina parcheggiata del tipo che abita di fronte. Sembra che lui abbia un qualche diritto di proprietà su questo marciapiede perché la parcheggia sempre qui la macchina, mattina, pomeriggio e sera, e poi il vecchio contadino lambrettato viene a scassare le palle a me che lascio la mia di macchina per cinque minuti sul marciapiede. Vabbè, lasciamo stare. Scianga è appoggiato alla sua macchina, senza stampelle. Scianga, Scianga, mi sa che un giorno di questi fai una brutta fine, cadi per terra e ti spacchi il muso, guarda che io ti ho avvisato! Il segaossa è già aperto, sento il rumore che ho sentito stanotte nel sogno: l’acciaino sfregato dalla lama del coltello. Un brivido sottile mi sale lungo la schiena.
È tardi.
A passo spedito vado al primo bancomat che sta proprio a cinquanta metri dal portone e faccio due conti. Con i soldi che ho in tasca e il massimo che posso prelevare dallo sportello arrivo a racimolare la splendida somma di trecentoventieuri. Non mi bastano, ce ne vogliono almeno quattrocentocinquanta se voglio pagare più o meno tutto lasciando perdere il bollo. Allora decido di fare due prelievi, uno con il bancomat e l’altro con la carta di credito. Infilo prima la carta. Digito il codice. Duecentocinquantaeuri che vengono sputati fuori in cinque pezzi da cinquanta. Desidera lo scontrino? No grazie, troppi ricordi poi. Ritirare la carta entro trenta secondi, prego. Non preoccuparti, neanche la bocca devi aprire. Ripeto l’operazione con il bancomat. Digitare il codice, prego. Digito il codice. Digitare il codice, prego. Ridigito il codice. Lo schermo si fa grigio. Sento un rumore arrivare da qualche parte dietro il video. Una scritta rossa. Spiacente, la sua carta è stata catturata. Per informazioni rivolgersi al proprio sportello. Grazie. Cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo! Perché? Se mollo un cazzotto allo sportello lo sfondo. Dietro di me c’è un signore che tossisce, spazientito. Cazzo, cazzo, cazzo! Mantengo la calma. Guardo il video. Intravedo la mia sagoma riflessa dietro la scritta lo sportello è pronto per una nuova operazione. Ma vaffanculo, va! Devo essere bello incazzato perché quando mi giro, il signore alle mie spalle si allontana spaventato.
Mi dirigo alla posta. Ormai è andata così, domani devo passare dalla banca un’altra volta e oggi sono costretto a pagare solo telefono, luce e gas. Alla spazzatura e al bollo ci penso domani, se mai ne avrò voglia e tempo.

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 5 parte

Chi l’ha detto che il miglior amico dell’uomo è il cane?

Io, per esempio, ho un pesciolino che non so che tipo di pesce è ma quando l’ho visto nel negozietto di animali, che nuotava insieme ad una miriade di altri pesci, me ne sono innamorato. Perché ha una bella coda, morbida, fluttuante, quasi in contrasto con il suo corpo piccolo e panciuto e che assomiglia tantissimo ai capelli della mia migliore amica. Lo tengo in una boccia trasparente sopra la televisione, è l’unica presenza della casa oltre a me e ai moscerini che da un po’ di tempo svolazzano indisturbati, e non ho ancora capito da che parte vengono fuori. Il pesce si chiama Stanley.

Stanley è educato, non sporca e non parla mai a sproposito. Mangia poco e io gli dedico poche attenzioni, inoltre non devo portarlo a spasso la sera per fargli fare la pipì e non mi riempie la casa di peli. In compenso lui fa delle cacche che certe volte mi chiedo da dove gli vengono fuori, visto che raggiungono la lunghezza di quasi dieci centimetri. Però, a pensarci bene, lui di parlare parla  eccome. Nella boccia gli ho messo, al posto dei soliti sassolini da acquario, delle pietre colorate, quelle di vetro che si vendono nei negozietti ex tutto millelire. E lui sembra contento perché c’è un po’ di colore. Allora di notte lo sento, mentre sono a letto, che le sposta facendo rumore. E mi piace pensare che stia declamando delle poesie futuriste a modo suo, mute ma rumorose. Ed è bello perché mi fa compagnia, mi fa sentire meno solo. Anche quando ha fame sembra che parli, perché si avvicina al vetro della boccia e apre la bocca di più, ritmicamente, e sembra che dica TEN GO  FA ME, come sta facendo adesso che sono sul divano e lo guardo. Così ripiego il fascicolo sulla riforma e prendo il barattolino del mangime, lo apro e come al solito un accidente di puzza mi assale le narici. Ma come fai a mangiare questa robaccia liofilizzata che assomiglia a dei coriandoli? Galleggia pochissimo sulla superficie dell’acqua perché Stanley ci si butta a pesce, della serie. Metto un po’ di musica.

Non so che fare.

Da tempo il lato destro della parete di fronte a me è vuoto. Su quello sinistro ho appeso una tela della mia amica che rappresenta un sole, che una persona ha detto che sembra un leone, e un’altra ha detto “che cosa è, un drago?”. Ma dove lo vedi il drago? I misteri dell’arte, ognuno ci vede quello che vuole… 

Invece Erika, la mia nipotina, quando l’ha visto ha detto “chebbellozzioilssoleddentrocasatua…”. Ah, beata innocenza fanciullesca! E la mia, di innocenza, dove è andata a finire?

“Dove sono i miei sogni d’oro e tutto quello che di luminoso avevano promesso in coro?” cantano i Madrigali Magri quando ogni tanto si ricordano di cantare.

Guardo ancora il lato destro del muro fissandolo. Penso che ci vorrebbe una libreria ma non c’è spazio dentro casa. Ho da poco finito di pitturarla. Non lo facevo da quando sono venuto a vivere qui, cioè da sette anni. I muri erano diventati di un bianco opaco ed era rimasto il segno dei mobili che c’erano prima e che ho regalato ad un mio amico. Invece mi sono fatto restaurare una credenza del 1900 di una mia zia che è morta, e mi diceva sempre quando ti sposi te la regalo, e io invece non mi sono sposato mai.

Che bella che è la credenza.

Mio padre mi ha dato una scrivania dello stesso periodo che lui usava nel suo studio, ma era diventata troppo piccola per lui e per la sua mania di distribuire fogli e documenti dappertutto. Allora me la sono presa io. Una volta che ho tirato via tutti i mobili, non sapevo dove mettere la televisione. Così ho pensato che per il momento poteva rimanere appoggiata su un cassettone di quelli uguali ai forzieri dei pirati. Fosse stato per me, pure per terra ma non sarebbe stato carino, visto che come dice Beppe, il mio amico chitarrista, sono uno strappone. 

I muri andavano assolutamente pitturati un’altra volta. Amica mia, ti andrebbe di pitturare insieme a me i muri di questa casetta che un giorno te la regalo?

– Assolutamente no! Io non so pitturare e le spennellate mi vengono fuori una chiavica. E poi non ho tempo – mi rispose la mia amica con i capelli coda di pesce.

Così chiesi l’aiuto ad un mio amico, tale Lapis, che si dimostrò davvero entusiasta fino a che, di punto in bianco, a mezzogiorno in punto del secondo giorno di pitturazione, mi mise il pennellone in mano e mi disse:

– Guarda, mi dispiace ma ho un appuntamento IN DE RO GA BI LE – si girò aprendo la porta e andò via. E non si fece più vedere lasciando qui un cartone che ho buttato con scarpe da ginnastica, tuta e occhiali.

E chi finì per darmi una mano? La mia amica con le pennellate che erano una chiavica ma che alla fine la casa è venuta proprio bene, con i muri color giallino, e l’incasso della finestra e della porta arancione, stesso colore di una piccola parete, quella che sta tra il bagno e le scale che portano al soppalco sulla quale ci ho appeso un quadretto portato dal Vietnam. Naturalmente, quanto mi è costato tutto ciò? La promessa di una cena a lume di candela in quel di Senigallia, e la promessa di lasciare a lei in eredità la mia macchinina che non ha niente di speciale ma le piace tanto, la casa, tutti i libri e tutti i fumetti.

Ma intanto questi benedetti libri che ora sono nei cartoni dove li metto, che la credenza è già piena e una libreria non entra? Per questo guardo la parete facendomi un’idea di come potrebbero stare delle mensole in vetro, che poi lo spazio è pure poco perché sul lato destro ci sta un ingombrante comò a cassettiera per metterci maglioni, asciugamani e ammennicoli vari destinati alle pubenda. Allora prendo un foglietto e faccio uno schizzo, metro da muratore alla mano, mentre squilla il telefono.

– Ma tu sei mio figlio, oppure ti sei dimenticato della nostra esistenza?

– Mamma…

– Si, mamma…quando ti conviene e quando non riesci a farti da mangiare…

Mia madre è così, passa da momenti di estrema dolcezza, a momenti di estremo scazzo con una facilità che neanche il mago Silvan è così veloce a mischiare le carte.

– Che fai? Non passi più da casa, tuo padre è preoccupato, ha il diabete, chiede sempre: Ma noi ce l’abbiamo un figlio? Eppure io ricordo di si. E io sempre a coprirti, a dirgli che stai passando un periodaccio, che tu sei sempre stato così, ma mica può andare avanti ancora per molto sai? Noi siamo vecchi, e tra un po’ ce ne andremo e voglio vedere come fai…

– Mamma, ho trentaquattro anni e sono dieci anni che vivo da solo.

– E che c’entra? Che ti sembra una scusa questa?

Alzo gli occhi al cielo, dopo dieci anni passati a cercare una risposta da darle a questa domanda, non so più che dirle. Diciamo che ho ormai perso la fantasia.

– Ma dove siete tu e papà, che sento un bordello bestiale? – le chiedo quando sento le urla di alcuni bambini in sottofondo.

– Io e tuo padre ci godiamo la vita davanti al golfo di Sorrento, mica come te con quella scuola lì che ti sta facendo impazzire. Non esci quasi mai, stai sempre in casa a studiare e te ne freghi di quello che ti gira intorno. Noi invece ce la spa…

E’ caduta la linea. I miei genitori hanno deciso di spendere tutti i loro beni derivati dal loro titolo nobiliare investendoli in turismo enogastronomico da colesterolo marcio, non ho capito bene se per abbreviare la loro marcia in questo mondo terreno, o semplicemente per addolcire i loro ultimi giorni. Comunque fanno bene. Potessi farlo io, che ho rifiutato tutto per fare l’alternativo dei miei coglioni!

La parete non mi convince. Non riesco a capire se è troppo piccola, se c’è poco spazio e devo spostare di nuovo il comò a cassettoni, comincio a stancarmi e mi viene voglia di buttare tutto dalla finestra. Dopo vari tentativi riesco a trovare una forma da dare alle mensole in vetro, che stiano bene sul muro senza dare fastidio e senza spostare di nuovo i mobili. Sul foglietto a quadretti ci sono linee perfettamente dritte che dovrebbero incastrarsi l’una con l’altra, formando tre livelli differenti, ci sono numeri che dovrebbero essere lunghezze, altezze e profondità, ma più le guardo e più dubito che il vetraio riesca a farmele come le ho disegnate, le mensole. Guardo il foglio. Guardo il muro. La mente è vuota e sento quel prudore sulla fronte tipico di quando sto per scoppiare, che mi sento non proprio sulla fronte, ma sotto la corteccia cerebrale che gratta gratta per uscire fuori. Comincio a grattarmi. La musica alla quale non facevo più caso, adesso mi inietta tutta la sua selvaggia prepotenza nelle dita “it’s  a sensation a bankrupt corpse on the garbage grasses with the crutches and forks”… staffilata di chitarre, le dita graffiano e Stanley comincia a nuotare nervoso in tondo nella boccia, apre e chiude la bocca, tra un po’ sto per disintegrare la radio non so ancora come.

Il campanello della porta, un trillo che mi riporta con uno scatto alla realtà, in altre parole io con il foglio in mano mezzo stropicciato e le unghie conficcate sulla fronte.

Spengo la radio con garbo.

Apro la porta.

Una signora sui quarantacinque con il grembiule da casalinga e le mani che puzzano di varechina. La figlia della signora Carlomagno, la vicina ottantenne.

– Sono la figlia della signora Carlomagno.

– Si, lo so. Buongiorno.

– La radio…

– L’ho spenta.

– Bene.

– E meno male.

– Arrivederci.

Si gira stizzita e sparisce dentro casa sua. Io rimango come un deficiente con la porta in mano e penso. Penso che tu, gentile figlia della vicina, alle ore 16 più o meno, irrorata di un persistente profumo di varechina hai per un attimo sospeso le faccende domestiche per venire a suonare alla mia porta per chiedermi di abbassare la radio, quando invece non ti degni nemmeno di andare a rompere i coglioni ai signori dirimpettai che hanno un juke box di canzoni napoletane, al posto di una radio qualunque, perché hai paura di non trovare la tua macchina stasera e io non so cosa mi trattiene dal venirti a sfasciare la porta, perché io lo so che tu ora sei dietro allo spioncino per vedere la mia reazione.

Mi avvicino allo spioncino.

Mi ci piazzo proprio davanti.

Apro la bocca.

La vedi l’ugola?

La vedi la lingua?

Questi sono gli occhi.

E vaffanculo.

 

 

Sigaretta.

Guardo fuori dalla finestra. Attraverso la tenda il palazzo di fronte con la signora che stende i panni. Un po’ di sole, ma per carità, solo per una mezz’oretta…

Mi viene in mente una canzone di Bugo “quando mi butto giù, non faccio le flessioni/non guardo neanche la tv, però mi rompo i coglioni…” . mi sento così, vorrei buttarmi un po’ giù ma non riesco a vedere il fondo, ho paura ad uscire fuori ma non per me, sto diventando un po’ troppo pericoloso per gli altri; per quanto riguarda me, non c’è nessun problema, posso farmi male quanto voglio che tanto è lo stesso.

Rientro dentro e riguardo il foglio a quadretti con linee e misure un po’ astratte. Ricopio il tutto su un altro foglietto, giusto per dare una forma più comprensibile al tutto, che sennò assomiglia troppo a quel gioco che c’era sulla Settimana Enigmistica, Questo l’ho fatto io, in cui in un quadratino ti davano un accenno di un disegno che tu dovevi completare nella speranza di vincere uno du quei meravigliosi premi che corrispondevano a televisori, videoregistratori, telecamere, phon per capelli e oggetti vari. Io mi ricordo sempre il paginone centrale, il Bartezzaghi, che io e mio padre facevamo a gara a chi lo finiva prima e ci compravamo sempre due copie. Io non vincevo mai, troppo lento. A volte davo delle definizioni alle domande troppo fantasiose, che magari entravano uguale nelle caselle e avevano anche lo stesso significato.

Accendo la tv.

Il Gambero Rosso Channel.

Mi fa venire una fame a me questo canale! Un primo piano su un tavolo con una tovaglia a quadri coperta da una scelta di formaggi che io li guardo e se fossi lì, a quest’ora non sarebbero più interi. Ci sono due tipi che aprono bottiglie di vino e mangiano formaggio facendo abbinamenti, e man mano che vanno avanti il loro occhio diventa sempre più lucido e tendente al sorriso, mentre la parlantina si fa più disarticolata. Si, questi due si stanno ubriacando marci, i vini che versano sono quasi tutti rossi e a giudicare dalla consistenza dei formaggi devono anche essere belli tostarelli. Il tipo che apre vino è rosso in viso, i suoi movimenti si fanno più lenti al contrario del suo collega che incomincia a tagliare formaggio e a masticarlo più velocemente, e beve vino con la bocca ancora piena e quasi ci manca un bel ruttazzo etilico mentre, sempre il formaggiaio, tira fuori non so bene da dove un vassoio con salumi che dovrebbero essere la finocchiona, la mortadella, il culatello che tagliano con fantasia e accanimento e ci sono i primi piani di queste due bocche che fagocitano tutto come i langolieri di Stephen King, “…ed è interessante riscoprire il perlage di questo barrique paglierino confrontato con la sapidità del culatello e la mortazza con il provolone è la morte sua io lo abbinerei ad una bella birra olandese magari trappista o anche chiara e leggera l’importante che sia fresca ora ne apro una e anche il polpo crudo sullo scoglio d’estate ma dai! E le cozze crude? Le fave novelle lo Stilton la Toma d’alpeggio in foglie di noce e questo stupendo rosso che io mi sono ordina…”

Ho spento. Questi due stavano davvero cominciando ad andare un po’ troppo fuori di testa. Il bello che li pagano pure per sparare cazzate e per mangiare e per sembrare un po’ trendy, che adesso la cucina è diventata trendy e tutti fanno corsi di cucina trendy, tutti fanno corsi da sommelier per fare i trendy con le ragazze, il cuoco è diventato un personaggio trendy, che prima quello del cuoco era considerato un lavoro sporco per fannulloni scolastici, invece ora fa la rockstar in televisione ed ha un bel viso pulito da fotomodello.

 

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 1 parte

“Qui è un macello
mille cose si accavallano
questo è il bello
se non hai niente da fare
Ti sembra strano che
non me lo ricordo mai
che quando siamo stanchi
c’è il rischio
di dire le stronzate…”

Bugo

Prima di tutto c’è il buio.
Un buio sudato, che comunque non riesco ad aprire gli occhi nonostante questo sia, adesso, il mio desiderio più urgente. Non riesco a capire come mai senta così tanto caldo. Poi sento un rumore lontano che all’inizio non so definire, ma so che mi è familiare, lo conosco bene. Mi giro e mi rigiro dentro questa dannata sensazione di caldo, c’è il buio e ancora questo rumore che adesso so cosa è: la lama di un coltello sfregata sul dorso di un acciaino.
Finalmente apro gli occhi e non sono più steso ma sto camminando, un corridoio lungo e bianco, con piastrelle pulitissime ai muri, anche sul soffitto, quasi l’ambiente fosse asettico, come un obitorio.
Ma non è un obitorio.
Non ci sono finestre, e neanche luci, eppure è tutto luminosissimo e bianco, bianchissimo.
Mi accorgo che alla mia sinistra ci sono dei portelloni bianchi con una maniglia nera, tutto il corridoio ne è pieno. Sono celle frigorifere in fila fino al fondo del corridoio, che non vedo ma so che è lì, da dove mi arriva all’orecchio il rumore del coltello e delle voci ora, insieme a risatine. È tutto perfettamente pulito.
Provo ad aprire le celle ma non ci riesco, una dopo l’altra il loro interno mi è negato.
Una dopo l’altra tento di aprirle in questo corridoio che sembra non finire mai, eppure le voci che adesso riconosco si avvicinano sempre di più, insieme al rumore della lama sull’acciaino. Piastrelle anche sul pavimento. Guardo per terra e vedo i miei piedi nudi, ma solo quelli, non il resto del corpo. Quindi non so se sono nudo o vestito, né tanto meno se quello che sta camminando sono realmente io, o i miei occhi sono nel corpo di un’altra persona.
Un gatto sta accucciato sulle zampe posteriori e si lecca quelle anteriori, umide se le passa sulla testa, sul muso, si contorce in un modo che solo i gatti sanno fare quando devono lavarsi. La coda è nervosa, si muove in continuazione e sembra non fare caso al mio passaggio, furtivo perché non voglio farmi sentire. Anche il gatto è bianco e ha gli occhi rossi. Si lava. Come se non ci fossi. Adesso che mi è vicino noto che non è bianco ma trasparente, vedo i suoi organi interni e il suo piccolo cuore che pulsa. Bianco anch’esso. Il gatto è un insieme intricato di nervi e vene e muscoli, come fossero fili elettrici in un sistema di illuminazione, gli occhi i fari.
Ma non è così, anche se provo pietà per lui, in questo momento so che è un gatto e nient’altro perché tutto ciò non è irreale, ma la normalità.
Irreali mi sembrano invece quell’insieme di voci e risatine che adesso sono dietro ad una porta che non avevo visto, il fondo del corridoio che ora mi appare dopo che il gatto mi aveva distratto. Una porta che in realtà una porta non è, bensì un altro portellone uguale a quello delle celle frigorifere alla mia sinistra nel corridoio.
Adesso riconosco le voci, anche se non distinguo quello che dicono.
Ridono.
Mi avvicino piano.
Rumore di acciaino sfregato.
“Questo qui neanche per il brodo è buono”.
Risatine.
“Lo spacci per agnellino?”
Risatine.
“Quasi quasi, magro com’è…con le braccia ci faccio il macinato…”
Cazzo…!
“Guarda il cazzo…”
Risatine.
Acciaino.
“Questo lo do al gatto…”
Risatine.
Il gatto…mi giro a guardarlo. Miao mi fa, poi continua la sua toeletta.
“Le costolette sono troppo magre, forse a Pasqua riesco a venderle per scottadito…”
Cercando di non fare rumore, apro il portellone. Ora le voci mi arrivano più nitide, insieme all’acciaino sfregato e ad una zaffata di aria freddissima, quasi di frigorifero.
“Il cervello me lo faccio fritto oppure glielo do a Mimì…sai come si fa intelligente?”
Risatine.
Il segaossa in camice bianco, poi i due sbirri attorno ad un tavolo. Il segaossa, è lui che sfrega la lama sull’ acciaino, mentre i due sghignazzano e fanno commenti. Improvvisamente si girano verso di me, niente affatto sorpresi. Il loro girarsi apre uno spiraglio che fa si che io veda cosa c’è steso sul tavolo.
Sono io nudo con un foro sul petto.
I tre si rigirano verso il mio corpo.
“Peccato che il cuore sia inutilizzabile…”
Risatine.
Il gatto si sta strusciando sui miei calcagni, ora.
Mi giro a guardarlo.
Miao mi fa, leccandosi i baffi, che già sa lui che tra un po’ ci sarà una bella cenetta.
Mi rigiro a guardare i tre.
Mi sveglio sudatissimo e con la bocca impastata, quasi avessi bevuto piscio la sera prima.

Prima sigaretta.
Il canale della telepromozione fa vanto dei suoi coltelli che tagliano pure la cassaforte della Bank of AmeriKa, mattina e sera me la trovo sempre sullo schermo. Ma li comprano mai questi coltelli? E tagliano sul serio? Solo per l’imbonitore, che acrobaticamente propone il suo spettacolo di ananassi tagliati al volo, uno dovrebbe comprarseli, per lo meno per vedere se poi tagliano davvero, gli ananassi al volo. E sicuramente, per premiare la voce del doppiatore che non c’entra mica tanto con le espressioni facciali del venditore mascherato da cuoco. A sentirla bene, quella voce sembra di uno stitico che cerca di svuotarsi senza riuscirci e che intanto prende tempo sulle convulsioni intestinali sdoppiando, in tutti i sensi, quella televendita di merda. Eppure continuo a guardarla, indefesso. Mattina e sera. E mentre la cenere della sigaretta ha di che urlare per il suo precario equilibrio sul bordo della brace, mi guardo alle spalle pensando ai miei di coltelli, quelli che fanno bella mostra di sé nella cucina, agganciati ad una calamita, quasi sopra il ceppo in legno di ciliegio che forse è l’unica cosa elegante e degna di nota, in mezzo a quella confusione in cui mi ostino a vivere in questi giorni. Che poi la confusione mica è tanto evidente. Il fatto è che, lasciare un po’ di piatti sporchi e tazzine del caffè nel lavello di una cucina lunga tre metri e larga, dal muro ai fornelli, solo sessanta centimetri, fa il suo bell’effetto boemio rancido.
Poi non sono riuscito a togliere quelle macchie insistenti dell’ultimo caffè dal muro bianco, sintomo di una precarietà urlante che appena entro in cucina la mattina mi morde con i suoi denti affilati. A dire il vero ci sono anche delle altre macchie, però quando guardo quelle non mi danno molto fastidio perché mi ricordano una cosa piacevole che i miei coltelli mi regalano di tanto in tanto. Allora li guardo e sorrido abbagliato dal loro perfetto scintillio sotto la luce del lucernario. In culo ai coltelli della televendita!
Naturalmente, che fine poteva fare la cenere della sigaretta mentre mi faccio le pippe mentali? Naturalmente sulla maglietta bianca che uso per dormire e che poi spazzolo con la mano, in modo tale da spandere ancora di più la cenere come un bambino rincoglionito. Ma non si era detto che la cenere faceva diventare bianca la bianca biancheria? Se è per questo, la cenere fa bene anche alle piante se la metti nel terreno, come la posa del caffè.
In questo momento, per esempio, so che la posa del mio caffè galleggia agonizzante nel lavello, come un pesce rosso in fin di vita, ma sinceramente mi auguro che l’acqua sia andata giù dal buco, anche se non ci spero più di tanto.
Guardo la finestra.
La luce mi arriva un po’ sbiadita, filtrata dalla tenda color panna pesante e offuscata dall’ombra del palazzo di fronte. C’è fumo adesso, quindi per forza di cose devo abbandonare l’idea di rimanere ancora un attimo svaccato sul divano, con sotto una marea di cuscini che il più delle volte tendo a buttare dietro lo schienale, per terra. Di sotto c’è il macellaio che ha cominciato il suo lavoro di segaossa e taglio di parti animali già da un bel tot di tempo.
Già so che ad una certa ora, se mi riaffaccio, lo vedo lì, appoggiato all’entrata con il suo assistente in camice bianco a fare niente, a guardare il marciapiede e le persone che passano in questa strada fin troppo stretta e fin troppo alla portata del mio balcone, così tanto da farmi imprecare il pomeriggio o la notte, quando passano le macchine o i motorini spernacchianti, che io già lo so che i motorini hanno quelle marmitte così per rompere i coglioni alle persone nelle ore più improbabili, che poi fanno suonare pure gli allarmi delle automobili. Già che ci sono vado a farmi pure il caffè, ma devo pescare nel lavello le tazzine del giorno prima e del giorno prima ancora, o almeno questo è il processo mentale che elaboro nel breve tragitto che mi separa dalla finestra alla cucina.
L’acqua, nonostante la posa del caffè, è andata giù per fortuna. Lavo le tazzine, tre per la precisione. Tolgo via i rimasugli di molliche e altro dal lavello e metto la Bialetti sul fornello.
Seconda sigaretta.
La televisione è ancora accesa, c’è sempre lui che armeggia con i suoi formidabili coltelli con questa voce italiana improbabile e allora cambio canale, i capelli arruffati, in piedi in mezzo alla stanza che poi è quasi tutto l’appartamento. Ora vendono la scarpiera e su un altro canale gli attrezzi ginnici e su un altro ancora la vaporella ad aria compressa che ti fa anche il bidet e il cappuccino e ti pittura la casa senza che tu ti alzi dal letto, caro il nostro gentile acquirente.
La cenere fa ancora una volta bella mostra del suo equilibrio precario e mi cerco un posacenere che ricordo di non avere, maledicendomi mentre cade per terra. Se non altro, non mi cade sulla maglietta. Il caffè comincia ad uscire, in cucina abbasso la fiamma sotto la Bialetti, poi chiudo il coperchio e spengo la fiamma, aspetto un attimo e con la caffettiera ancora gorgogliante lo verso nella tazzina e lo bevo. Amaro e bollente all’inverosimile in piedi sotto il lucernario.
Dovrei andare a lavorare ma non è che ne abbia molta voglia.

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Antonio Bufi

Antonio Bufi nasce in quel di Molfetta, una ridente cittadina che si affaccia sull’Adriatico, una manciata di anni fa. Dopo aver provato a far volare dal balcone aeroplanini fatti con i fogli su cui scriveva i sui pensieri imberbi, rimane folgorato come Paolo sulla via di Damasco dalla buccia di limone che sua madre usa per la crema pasticcera...

Valentina Pelizzetti

Valentina Pelizzetti nasce in quel di Torino, una verde cittadina attraversata dal Po, pochi anni dopo Antonio. Dopo aver sognato invano di essere la Carla Fracci de' noiartri si scrive ad architettura...