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SCARCELLA E LIQUORE DI MELE COTOGNE

Si avvicina il periodo pasquale e cosa prepariamo da mangiare? Nelle giornate di Quaresima si tende sempre a non mangiare la carne, ad aumentare l’utilizzo delle verdure, ad utilizzare il pesce, quello povero ma più saporito, per poi esplodere il giorno di Pasqua con agnelli e coratelle a volontà. In più c’è la primavera, con la sua interminabile escalation di profumi e sapori che porteranno all’estate, pian pianino. Allora si penserà a preparare insalate, macedonie e pasti freschi e leggeri, vino bianco freddo a intorpidire i sensi e sangrie serali bevute in allegria.

Oggi abbiamo la Scarcella, tipico dolce pasquale pugliese ma che si può trovare anche in altre parti d’Italia sotto un’altra forma.

La Scarcella ha una lunga tradizione, è uno dei dolci più poveri e antichi della mia zona e viene fatta non proprio la domenica di Pasqua, ma quella successiva in omaggio alla Madonna dei Martiri o in dialetto la “Medonn du Trmlizz” cioè del terremoto perché salvò Molfetta da una catastrofe nel 1200 e qualche cosa. Allora, fate una specie di pasta frolla con 500 gr di farina, 200 gr di zucchero, 100 gr di olio d’oliva, 2 uova intere , 7 grammi di ammoniaca (attenti a essere precisi altrimenti durante la cottura l’ammoniaca farà disgregare tutti gli ingredienti) e mezza bustina di vaniglia. Amalgamate il tutto abbastanza in fretta (più tempo perdete ad impastare e meno si amalgameranno gli ingredienti) e lasciate riposare in frigorifero. Procuratevi 500 gr di mandorle che avrete cura di sbollentare e sbucciare, e frullate con 450 gr di zucchero in modo tale da ottenere una specie di farina/purea che metterete in un pentolino insieme ad un pizzico di cannella, la buccia grattugiata di due limoni e del liquore a piacere. Coprite a filo con acqua fredda e portare ad ebollizione girando in continuazione per dieci minuti a fuoco moderato per evitare che si attacchi. Deve essere una specie di crema. Avrete così ottenuto la pasta reale. Mentre raffredda, prendete la pasta frolla e dividetela in due. Stendete due dischi ai quali darete la forma che più vi piace, l’importante è che siano uguali (per esempio un cuore, che romantici!), stendete uno strato di pasta reale e uno di marmellata d’uva (come tradizione impone ma potete mettercene un altro tipo) lasciando il bordo libero almeno per un cm. Spennellatelo con dell’uovo sbattuto e sovrapponete l’altro disco premendo bene i bordi. Una buona saldatura si ha poi passando la classica rotella. Vi conviene fare tutte queste operazioni già in una teglia con della carta da forno sotto, in modo da non avere difficoltà poi in seguito. Si cuoce in forno per una ventina di minuti a 170°. Molti spolverizzano la sua superficie con dello zucchero a velo, ma chi lo sa fare, ci mette su una bella colata di “giuleppe”. Che cosa è? è la comunissima glassa bianca da pasticceria che si trova già in commercio nelle drogherie o chiedendola in prestito in qualche pasticceria amica vostra ma se volete farla voi, è molto semplice: sempre nel nostro famigerato pentolino, questa volta meglio se largo, mettete dello zucchero a piacere e coprite a filo scarso con acqua fredda, mettete sul fuoco e fate sciogliere fino a che il tutto non diventa di un colore quasi biondo. Attenti a non mettere dita dentro, se non volete trovarvi solo la falange. Togliere dal fuoco, lasciare raffreddare per nemmeno cinque minuti e aggiungere qualche goccia di limone. Poi, con un cucchiaio di legno girate in continuazione fino a che non diventa bianco appunto come la glassa. È un procedimento che vi porterà via un po’ di tempo, ma ne vale la pena. Quindi, fatela colare sulla scarcella che sarà già cotta e raffreddata, e se volete, ci potete aggiungere sopra i corallini di zucchero colorato, oppure le perline argentate, o delle scagliette di cioccolato.

E i vini? A me piace bere con questo dolce il Recioto della Valpolicella, oppure il Piccolit o ancora del Vin Santo. Un abbinamento che mi piace assai è invece con il liquore alle mele cotogne, tosto e vigoroso che viene fatto in casa, o meglio, veniva fatto in casa, adesso è sempre più difficile trovarlo. Allora eccovi la ricetta: 500gr di succo di mele cotogne che avrete ottenuto da una centrifuga (filtratelo bene il succo), 500gr di alcol e un cucchiaio e mezzo di zucchero. Fate sciogliere lo zucchero nel succo sul fuoco, senza far bollire. Poi fate raffreddare e aggiungete l’alcol. Mettete in una bottiglia e lasciate riposare al buio almeno per quattro mesi prima di berlo. Si formeranno dei sedimenti che se volete potete filtrare, altrimenti lasciateli lì, così riuscirete a convincere i vostri ospiti che l’avete fatto davvero voi.

 

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E’ TEMPO DI BACCALA’…

siccome mancavo da un po’ di tempo, mi è venuto in mente di parlare di un pesce che a me piace tantissimo e che in questo periodo è facile trovare in tutte le cucine d’europa…un pesce trasversale dunque, che ci fa fa capire quanto tutto il mondo sia paese!!!

Il Baccalà

Parlare di baccalà non è facile, bisognerebbe prima parlare della Norvegia, ma dei paesi nordici si parla di solito tanto poco. La Norvegia rappresenta uno degli ultimi paradisi naturali d’Europa, largamente incontaminato e privilegiato da un clima temperato grazie alla Corrente dei Golfo e in acque libere dai ghiacci. La pesca si svolge rigogliosa e qui si pesca il baccalà, ovvero il merluzzo. Noi siamo grandi consumatori di baccalà e stoccafisso.
Ma diciamo spesso baccalà e non stoccafisso che invece sono due cose diverse, anche se derivano dallo stesso pesce, ovvero il merluzzo.
E allora? Cambia soprattutto il modo di conservare il pesce. Già i Vichinghi usavano lo stoccafisso come principale fonte nutritiva. Infatti le differenze dipendono essenzialmente dal modo di lavorazione. Il merluzzo artico è diviso dai norvegesi in due tipi: il Lofoten e il Finnmark. Il primo si cattura in inverno, l’altro, più a nord, viene pescato in primavera. Così possiamo affermare che il Lofoten è adatto per il baccalà mentre il Finmark, più piccolo, per lo stoccafisso.
Sono queste delle sfumature tali che solo un grande intenditore può capire. Lo stoccafisso viene esposto all’aria e al sole completamente intero per circa tre mesi, di solito in primavera, così da perdere il 23% del peso ed è pronto per entrare nei mercati internazionali verso la fine di giugno.
Le condizioni ideali di conservazione di uno stoccaggio del baccalà secco sono di cinque centigradi, ma può reggere temperature superiori. L’importante è che il magazzino ove si depositano le balle di baccalà non sia mai umido. In Italia vi sono vari tipi di baccalà, ovvero di merluzzo: merluzzo squamoso, ling e brosmio.

Il Merluzzo

Il Merluzzo è come il maiale nella cultura popolare: non se ne butta via niente. Le uova, il latte, il fegato vengono venduti separatamente, le teste seccate hanno un ottimo mercato nei paesi africani. Tuttavia è il corpo la parte preferita.

Le proprietà

Lo stoccafisso come il baccalà costituisce una delle fonti di proteine più importanti e concentrate.
Inoltre il merluzzo è ricco di calcio, ferro e vitamine del gruppo B. Lo stoccafisso viene poi distinto secondo le pezzature di Lofoten in ragno, la migliore qualità, l’ideale per il baccalà alla vicentina, il Westre Magro, il Grand Premier, Olandese, Bremese, Westre Ancona, Italiano grande magro, italiano Medío e Lub. Tutto lo stoccafisso viene consegnato in balle da 50 kg. Il baccalà è invece di due qualità: prima e seconda. Si usa venderlo in casse di legno a pezzatura e cioè da sei a dieci pesci per cassa. Rispetto allo stoccafisso il baccalà è più piccolo. Un altro prodotto che sta guadagnando posizioni sui nostri mercati è il filettone di baccalà, pesce conservato in sale come il baccalà, ma senza spine.

La tradizione

Come i grandi cibi che si rispettano anche il baccalà ha la sua storia. Si sa che ben prima dei Mille i Normanni che abitavano le estreme terre d’Europa preparavano nei fiordi lo stoccafisso che essi stessi poi portarono con sé nelle loro peregrinazioni, tra un assedio e l’altro, e la conquista di un regno. Le origini storiche vanno certamente ricercate a Bergen. Bergen è il grande porto dove si svolgevano attorno al 1070 i grandi i scambi. Qui il baccalà veniva scambiato soprattutto con il sale. Ma nel 1250 la Lega Anseatica, con la città tedesca di Lubecca, riuscì a spezzare il monopolio scandinavo diffondendo il prodotto nordico nelle principali case mercantili d’Europa. Le prime partite di stoccafisso giunte in Italia, a Genova e a Venezia, probabilmente arrivarono da Lubecca.

Le testimonianze

Dello stoccafisso parlò Olao Magno nel suo Historia delle genti e della natura delle cose settentrionali nel 1555 e il Dr. Francesco Negri di Ravenna che nel 1663 visitò Bergen. Testimonianze migliori e più attendibili si hanno nel Dizionario d’istoria naturale di Pietro Querini.
Si parla di stoccafisso, merluzzo, baccalà. La parola baccalà sembra derivi dal fiammingo bakkaliaum, nato a sua volta dall’olandese Kabeijauw, con storpiatura portoghese bacalao e da noi baccalà. Il termine stockfisch, o schei fish, si trova nell’antico frisone, ma non in Inghilterra dove il merluzzo è chiamato cod.
La differenza dell’italiano con il tedesco e l’inglese dimostra che la parola baccalà viene dai Portogallo. I portoghesi ebbero infatti molti contatti con Venezia. Ma anche da noi, in Italia, vi sono due terminologie diverse: in Lombardia si dice meriusch o merluzzo a Genova stoccafisso, a Messina pesce stocco, nel Veneto baccalà ed è proprio il Veneto il più grande consumatore di stoccafisso: è qualcosa di più di un pesce. Il baccalà è il baccalà, e basta. Non importa da dove venga.

E’ qui dove assume i caratteri principeschi della buona tavola. Com’è arrivato un pesce nordico sulla mensa veneta e vicentina in modo particolare?
Probabilmente ancora dai tempi della Serenissima Repubblica il baccalà era solito comparire sulle tavole in tempi di difficile pesca, sostituendosi al pesce stagionale. Ebbe diffusione vastissima dai primi dei Novecento, allorché il baccalà alla vicentina diventò il principe della locale gastronomia.

La ricetta

Quella di oggi è Lasagnetta di baccalà mantecato al sedano rapa con piselli novelli, gratinata al Castelmagno. Certo, il nome può sembrare complicatissimo ma l’esecuzione è semplicissima. Procuratevi il filettone di baccalà, quello spesso e senza spine, bianco e leggermente stagionato nel sale, quindi non quello secco e duro e troppo saporito. Lavatelo bene sotto l’acqua corrente e fredda e mettetelo per due o tre giorni, senza la pelle, nel latte che avrete l’accortezza di cambiare giornalmente insieme ad una foglia di alloro fresca frantumata, un anice stellato e due o tre chiodi di garofano. Intanto procuratevi gli altri ingredienti: una palla di sedano rapa, dei piselli novelli (mi sa che bisognerà aspettare ancora un po’ per trovarli ma potete sostituirli con dei ceci neri della Murgia), del cipollotto fresco e una cipolla bianca, del basilico, un po’ di Castelmagno (per chi non lo sapesse, è un formaggio dal sapore forte e dal profumo deciso, erborinato ed ottenuto dal latte vaccino e prodotto nel cuneese), e della pasta fresca tagliata a dischi del diametro che più vi piace (se non avete il tempo per farla, va bene pure quella confezionata). Pulite bene il sedano rapa e tagliatelo a tocchetti non troppo grandi, poi scolate e sciacquate sotto l’acqua il baccalà e tagliatelo della stessa grandezza del sedano. In una pentola dal fondo largo, fate rosolare il cipollotto con un filo di olio d’oliva e se avete la possibilità di procurarvi della melissa o del dragoncello freschi o l’erba cedrina, mettetegliela insieme a qualche grano pestato di pepe nero. Poi aggiungete il sedano, fate appassire leggermente e infine metteteci il baccalà. Abbiate l’accortezza di girarlo abbastanza spesso perché avrà assorbito il latte che, uscendo fuori durante la cottura, tenderà ad attaccarsi. Se necessario, bagnate di tanto in tanto con del brodo vegetale. Il tutto si deve sfaldare ben bene. Una volta fatto questo, togliere dal fuoco e versarlo in un altro recipiente magari profondo e semisferico, e mantecate il tutto con dell’olio d’oliva crudo aiutandovi con una frusta ottenendo così una purea spumosa e morbida. Difficilmente avrete bisogno di aggiungere altro sale. A parte, pulitevi i piselli e sbollentateli rapidissimamente in acqua non salata, così rimangono verdi (naturalmente se usate i ceci neri dovete tenerli a bagno almeno 12 ore e cuocerli come dei normali legumi con un mazzetto aromatico). Una manciatina la metterete nel baccalà. In una casseruola, fate imbiondire un po’ di cipolla bianca, poi ci mettete i piselli rimasti (o i ceci), coprite a filo con il brodo e appena accenna a bollire (il brodo deve essere già bollente), spegnete, aggiungete due o tre foglie di basilico, frullate il tutto, aggiustate di sale e poi passate la crema al setaccio così diventa bella liscia. Sbollentate la pasta fresca e fate una lasagna a più strati con la purea di baccalà, spennellatela leggermente di olio e passatela per cinque minuti in forno già caldo. Poi, sull’estremità ci mettete una o due fettine a piacimento di Castelmagno e lo fate sciogliere sotto il grill. Servite naturalmente in un piatto, magari anche leggermente fondo, con la crema di piselli a specchio o come vi pare.

Per quanto riguarda il vino, io abbinerei o un Nero dei Conti Zecca, o un Anarkos dell’Accademia dei Racemi. Sono tutti e due rossi ma sono particolari, sono giovani nel senso che sono di nuova produzione ma stanno già spopolando presso i buongustai e hanno vinto un bel po’ di premi. A differenza dei vini blasonati, sono buoni e costano veramente molto poco.

Buon appetito e spero di non avervi tediato. 

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CERASE

ieri avevo voglia di vederti.

Davvero.

Da quando mi hai chiesto di andare a  bere qualcosa insieme, niente è più stato lo stesso.

Ti vedevo entrare in libreria con quella barba e i capelli ricci, lo sguardo intrigante. Non puoi nemmeno immaginare quanto ho desiderato che tu mi chiedessi di uscire insieme a te o qualsiasi altra cosa. Invece ero io che mi avvicinavo a te, con il mo solito sorriso e la voglia di baciarti. Ti chiedevo se potevo esserti utile e tu mi rispondevi allargando le braccia che “andavi a braccio”, e mi guardavi con quel gesto che voleva abbracciare tutta la libreria e mio Dio!, quanto desideravo che tu abbracciassi me, lì davanti a tutta la gente e i libri, che mi spogliassi e cominciassi a baciarmi dappertutto.

Invece tu niente.

Quanto tempo sei venuto in libreria? Un anno? Forse di più? Ogni volta la stessa storia. E io che mi sentivo una merda, cazzo dimmi qualcosa!

Ho cominciato io, contro la mia volontà, perché più forte era il desiderio di sentire il tuo corpo che nascondevi sotto quei jeans consumati e il giubbotto di pelle. E quando era estate, ti sbirciavo le braccia tatuate, e il tuo fondoschiena sodo nel quale avrei voluto infilzare le mie unghie mentre immaginavo il tuo sesso entrarmi dentro.

Mi chiedevi dei libri e io mi inventavo storie sulla bellezza di quello che avevi scelto tu, fingevo che non erano in libreria e che bisognava ordinarli, per costringerti a ritornare il più possibile, prova a venire domani, ti dicevo. E dopodomani e ancora dopo.

Fino a che hai cominciato a prendere i libri di Jonathan Carroll. Tutti questi titoli strani e queste strane copertine sono state motivo di discussione tra noi, e tu, che ci mettevi pochissimo tempo a leggerli, ritornavi ogni settimana a prenderne un altro fino a Mele Bianche. Quello non c’è, ti ho detto. Bisogna ordinarlo.

E così, ancora una volta, ti ho costretto a ritornare. E gironzolandoti attorno, come un fulmine a ciel sereno, ti sei girato verso di me e mi hai invitata a bere qualcosa. Eccoti qui finalmente, c’era bisogno di tutto questo tempo? Non potevi chiedermelo prima?

E la sera ci siamo visti che faceva veramente caldo, siamo andati al mare con in mano due birre che si sono riscaldate prima del tempo e tu mi parlavi, mi parlavi fino a che non ho resistito e ti ho baciato. Ho lasciato entrare impetuosamente la mia lingua nella tua bocca stringendoti la testa, non volevo che ti staccassi. Piuttosto, te l’avrei staccata quella lingua portandola a casa come trofeo. E mi sono lasciata toccare dalle tue mani e mi sono fatta baciare, ti ho lasciato entrare dentro di me godendo del tuo orgasmo e premendo il mio ventre contro il tuo, sentendo le tue labbra appiccicate sui miei capezzoli e i denti che mi affondavano nella nuca. E siamo rimasti così per parecchio tempo, lasciandoci avvolgere dal rumore della risacca e dalla salsedine.

Non ti ho chiesto di venire a dormire da me perché immaginavo che non l’avresti fatto. Non sei il tipo e tanto meno ho voglia di costringerti. Anche se un rapimento sarebbe stata una buona idea.

Poi sono passata a trovarti sul lavoro il giorno dopo e abbiamo mangiato il gelato insieme. Non so perché, non me lo hai detto, in tasca avevi un cucchiaino che mi hai regalato. Per ogni volta che mangi un gelato, mi hai detto. Così ti ricordi di me. Ed ho pensato a quanto tu fossi strano e unico, con quel cucchiaio che mi ha disorientata.

Come ti dicevo, ieri avevo voglia di vederti.

Così ti ho mandato un messaggio in cui ti dicevo che alle sette sarei stata ai giardinetti, e che se ti andava potevi raggiungermi perché avevo troppa voglia di baciarti. Sono partita molto tempo prima da casa, volevo assaporare ogni singolo momento della mia attesa di te, respirare un po’ di aria immaginandoti e prolungando ancora di più il desiderio. Da un banchetto ho preso un sacchetto di ciliegie e mi sono seduta ad una panchina, ho pensato che tu ne avessi un po’ voglia e che le avremo mangiate insieme ridendo e sputandoci i noccioli addosso. Immaginavo che tu mi toccassi con le ciliegie, facendomi venire i brividi. Le passi sui miei capezzoli, sulle mie labbra, sul mo clitoride. Le infili dentro di me e poi le succhi, e le mastichi insieme al mio sapore e mi fai sentire viva. E la stessa cosa fai con il tuo cucchiaino, Dio che voglia che mi fai venire… Vorrei sentirlo lungo la mia schiena, freddo sulla mia pelle calda, che scende giù fino ad arrivare…lo sai dove, non c’è bisogno che te lo dica. E ancora ciliegie, ciliegie, ciliegie dappertutto. Tra le mie labbra, le tue labbra, sul tuo corpo schiacciate e poi leccate, dolci e sapide del tuo sudore.

Ma sono già le otto e tu non sei arrivato, e io le ciliegie le ho già finite.

Così mi alzo e compro un gelato alla pesca e zafferano. Mi risiedo sulla panchina con il mare di fronte e comincio a mangiarlo con il tuo cucchiaino. Chiudo gli occhi e sorrido, mentre sento un lungo, piacevole rivolo che mi cola tra le gambe.

 

 

Cheesecake alle ciliegie 

 

500 gr di ciliegie Anella

500 gr di robiola

1 uovo intero e 1 tuorlo

150 gr di zucchero

50 gr di burro

1 banana matura

1 bicchierino di porto rosso

il quantitativo giusto di pasta frolla per foderare una tortiera

 

Fate sciogliere il burro con lo zucchero in una padella e aggiungete le ciliegie snocciolate. Bagnate con il porto e fate cuocere ancora per una decina di minuti (potete aggiungere, se lo volete, un po’ di pepe nero pestato e due chiodi di garofano; magari anche della cannella). Lasciate riposare inclinando la padella per raccogliere il succo poi. In un mixer, frullate la robiola con le uova, la banana e il succo delle ciliegie. Foderate uno stampo per crostate con la pasta frolla e dategli una precottura di 10 minuti. Poi sul fondo disponete le ciliegie cotte e  versateci il composto ottenuto con la robiola. Cuocere in forno a 160° per una ventina di minuti, lasciatela raffreddare e buon appetito.

 

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LA PRIMAVERA INTANTO…TARDA AD ARRIVARE – piccole fantasie sotto forma di primizie o come fare la spesa approfittando della stagione e spendere pochi euri!

Una bella stagione questa per chi ama cucinare o andare in giro per i mercati. Una stagione fatta di primizie che profumatamente affiorano sui bancali in giro per le strade, non in quelle boutique gastronomiche di cui sono piene le città e che vendono prodotti che sembrano finti a prezzi allucinanti, ma quei disastrati fruttivendoli vicino alle trattorie, i contadini nei garage o sui marciapiedi o se ti fai una gita fuori porta trovi nelle stradine sterrate che se non hai una jeep puoi dire addio alle sospensioni dell’automobile. E questo è il periodo più bello per chi, come me, ha scelto di fare dell’alchimia dei sapori una ragione di vita. Perché scendo per strada e davanti ai fruttivendoli trovo ispirazione per dei piatti che probabilmente non farò mai o semplicemente perché troppo lontano da casa e da mia madre, rievocano in me sapori ormai lontani.
Vedo già i fiori di zucca che nella mia mente si sono trasformati in ripieni con un pezzo di caciotta e un filetto d’acciuga, passati in una pastella di uova e farina o semplicemente acqua e semolino e fritti e mangiati, unti e croccanti, ustionanti all’inverosimile se non stai attento.
I primi piselli freschi, ancora piccoli e per questo teneri e più dolci di quelli che si troveranno fra un mese. Sbucciati e sgranati, con la buccia farne un brodo per insaporire un risotto rosolato in un fondo di cipolla e guanciale fresco, aggiunti poi a metà cottura girando e rigirando, fino a che il risotto risulta morbido, mantecato con pecorino grattugiato e una bella manciata di pepe, niente burro, solo un filo di olio…piselli e riso, la minestra del paradiso! Ripeteva mia nonna…
I carciofini, piccoli e duri. Vanno puliti poco, il loro cuore è tenero e possono essere mangiati crudi in insalata, tagliati a listarelle insieme a mentuccia, barba di finocchio, misticanze e foglie di sedano, una specie di insalata di rinforzo. Oppure fatti bollire per pochi minuti in acqua, aceto, sale e zucchero più aromi come pepe in grani, foglie di alloro, chiodi di garofano e poi, una volta scolati messi sott’olio in contenitori ermetici di vetro, buoni a rinfrescare l’estate che si avvicina insieme a del pesce fritto come merluzzetti, trigliette, sardoni, sgombri…
Gli asparagi, buoni pure da mangiare crudi, pelati leggermente e serviti come un pinzimonio, buoni per depurare l’organismo e per tonificare il corpo. O lasciandone le punte intere e il gambo tagliato a rondelle finissime a condire una tartare di seppia con aceto di lamponi, buccia di limone e foglie di coriandolo, se ve la sentite potete provare a fare pure una salsina di carote facendole cuocere in un fondo di cipolla bianca e zenzero, bagnate con succo d’arancia e quando cotte, frullate con l’omogeneizzatore. Un accostamento accattivante e destabilizzante perché sono tutti elementi che mai si sarebbero sognati di incontrarsi se non vi avessero incontrati!
E poi le fave, anche queste mangiate crude insieme al cacio e a del buon vino bianco o in una piazzetta di qualsiasi paese con della birra ghiacciata, fette di mortadella del salumiere a sporcarsi le mani e rutto libero, mentre accanto ci sono i nonnini che giocano a briscola e ti fanno l’occhiolino perché ti considerano uno di loro, non come quei cazzo di giovincelli scafati che si truccano come i tokyo hotel o vanno in giro dietro le prime gonne di primavera, gambe già abbronzate anche se non c’è il sole e fighette rasate che fa tanto glamour.
E poi gli agretti o barba di frate, scottati in padella, tagliuzzati e messi dentro una frittata, o la borragine, che se mangi le foglie crude e chiudi gli occhi sembra di mangiare un’ostrica, ma se le fai bollire diventano dolcissime e le salti con burro, pancetta, formaggio grattugiato e le usi come ripieno per i tortelli da servire solo con olio crudo, per non sovrastarne il sapore con qualsiasi altra salsa…e la catalogna da mangiare in insalata, cruda, a morsi intera o tagliata a listarelle sottili, come si vende nei mercati rionali romani, il cipollotto fresco e l’aglio viola, da usare nei fondi di qualsiasi pasta o zuppetta di pesce, e i peperoni a cornetto, e le melanzane perline, piccole, viola e così dolci che potresti addirittura improvvisare un dessert con il cioccolato…e le betterave, il finocchio selvatico, il dente di leone, i pomodori datterini, le zucchine piccole, i cetrioli….
Cose così, se si ha un po’ di fantasia, fanno inebriare.
Magari, fra un ufficio e l’altro, fermatevi in qualche fruttivendolo a comprare qualcosa piuttosto che davanti alle vetrine da “fashion victims”. Magari potreste anche telefonarmi, oltre che farci compagnia a vicenda potrei anche darvi delle dritte per ottenere dei buoni risultati in cucina. E se proprio volete, potrei anche venire a casa vostra e dopo aver fatto la spesa insieme, potremmo divertirci cucinando e raccontandoci delle storie…

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OUTSIDE GOLA PROFONDA

Chi di voi ha mai visto Gola Profonda?
Suvvia, non dite di non averlo visto!
Sul serio? Beh, posso capirlo, molta gente non ha mai visto un film porno, oppure l’ha visto ma si vergogna a rivelarlo, come se fosse qualcosa di intimo ma allo stesso tempo sporco e indegno.
Ma Gola Profonda non è un film porno, Gola Profonda “è il film porno”.
Se non ci fosse stata Linda Lovelace e la sua acrobazia orale, sicuramente niente, nel mondo dell’hard core, sarebbe diventato com’è ora, nel bene e nel male.
Linda, il suo sguardo dolcissimo e il suo sorriso, le sue lentiggini, il piacere e la gioia che traspare nel suo gesto eroico: far sparire completamente in bocca l’asta possente di un fantastico, superdotato e invidiatissimo Ron Jeremy.
Io, Gola Profonda l’ho visto due volte. La prima esattamente nel 1991 a Firenze, in un infimo cinema a luci rosse. Mi ci portò Carlo, era il suo regalo per il mio diciottesimo compleanno (ho dovuto contare gli anni sulle dita…come passa il tempo!). Mi ricordo ancora lo squallore della sala, la sorpresa che avevo provato nell’entrarvi (era la prima volta per me) e i vecchi depravati che gironzolavano tra le poltroncine quasi tutte completamente vuote.
A distanza di tempo, e cioè fino a che non ho rivisto per la seconda volta il film, non ho mai ricordato nulla tranne la scena più importante, quella che è passata alla storia e che è diventata croce e delizia di tutti quelli coinvolti nella registrazione. E la sensazione che ho provato, è stata quella di sentire un enorme risucchio al centro del mio corpo, non so se avete presente.
E si, perché qualche mese fa in edicola si poteva acquistare sia Gola Profonda che Inside Gola Profonda, seguiti a ruota da Gola Profonda Nera e Gola Profonda 2. E immaginatevi se io non andavo a comprarmeli per rivedermeli e conservarli con gelosia.
Fatto sta che dopo averlo visto, l’ho prestato ai ragazzi che lavorano con me, età media 23 anni che non sapevano nemmeno dell’esistenza del film.
Il giorno dopo l’abbiamo commentato insieme a tavola, nella nostra pausa pranzo. E ridevamo e scherzavamo sulla cosa, sull’assurdità della trama del film, sulla vagina in fondo alla gola di Linda.
Siamo dei cuochi, i cuochi sono tutti perversi. Così ci siamo chiesti come avrebbe fatto Linda se realmente il suo clitoride fosse stato l’ugola. Come avrebbe fatto a mangiare se ogni qualvolta avesse ingurgitato qualcosa lei sarebbe “venuta”?
E cosa avrebbe preferito mangiare?
Carote? Cetrioli? Banane? Daikon?
E con l’insalata, come si sarebbe comportata? E con un piatto di orecchiette? E in base al condimento, il suo orgasmo sarebbe stato sempre diverso, che ne so, provate a immaginare una salsa piccante, o con del formaggio oppure con del pane grattugiato, con quella sensazione di prurito in fondo alla gola che certe volte ti fa tossire o bere tanto vino. E se nel mangiare un rombo al sale, una spina rimane in gola? Sai che orgasmi? E con un grissino intinto in un morbido gorgonzola?
Ecco, a questo pensavamo durante la nostra pausa pranzo, io, Antonio, Federico, Felice e Sabino, sganasciandoci dalle risate e toccandoci il pacco, con gli occhi lucidi e le espressioni sorprese.

Il film mi è ritornato indietro dopo due mesi.

Stamattina, una commessa di un negozio vicino al ristorante mi ha chiesto:
– Chef, ho saputo che hai Gola profonda. Me lo presti?
Non ho avuto il coraggio di chiederle di vederlo insieme.

BANANA SPLIT

La Banana Split è uno dei più famosi dessert al mondo composti da frutta e gelato. A causa della sua caratteristica forma viene servito in un piatto stretto e lungo che viene denominato “barchetta”. Il primo a brevettare la ricetta della Banana Split fu il dottor David E. Strickler nel 1904: all’epoca, Strickler era uno studente dell’Università di Pittsburgh nella quale si sarebbe laureato nel 1906. Per preparare una buona Banana Split, per prima cosa bisogna tagliare due volte, in maniera longitudinale, la banana (da qui il nome “split”, che in inglese significa “spaccatura”) per poi metterla per lungo sul piatto. A questo punto, la frutta si può condire come si preferisce, ma la tradizione vuole che siano aggiunte tre palle di gelato (rispettivamente alla fragola, al cioccolato e alla vaniglia) ricoperte dalla panna a metà tra le due banane. Altre gustose guarnizioni per il gelato possono essere le noccioline sbriciolate, il caramello, fettine di ananas, lo sciroppo d’acero, quello al cioccolato o ancora quello all’amarena e le ciliegie. Molti ristoranti e pasticcerie aggiungono anche del maraschino alla panna montata o alle noccioline.

Chi ha inventato la Banana Split?

Quando brevettò la Banana Split, Stickler lavorava nel bar del padre, che si trovava a Latrobe in Pennsylvania: le sue mansioni tuttavia erano più relegate ai cocktail e alle bibite, soda (seltz) in particolare. Tuttavia tutti i cittadini di Latrobe lo accreditano come l’inventore del celebre dolce, tanto che nel 2004 è stato celebrato il centesimo anniversario dall’invenzione della Banana Split. Inoltre, le tesi di Stickler furono avvalorate dall’opera di Michael Turback The Banana Split Book.
Secondo gli storici, uno o due anni prima di Stickler un venditore di gelati di Boston ideò un dessert molto simile alla Banana Split, ma che aveva il difetto di servire ai clienti le banane non sbucciate. Probabilmente, Stickler si accorse del fatto che i signori che ordinavano tale dolce preferivano le banane sbucciate, riuscendo così a soffiare l’idea al gelataio bostoniano.
Le polemiche sulla nascita e sull’invenzione di tale alimento sono ben lungi dall’essere placate: la citta di Wilmington, che si trova in Ohio, reclama da tempo immemore la paternità del dessert in quanto, secondo i cittadini locali fu inventato nel 1907 dal ristoratore Ernest Hazard. Ogni anno i cittadini di Wilmington eseguono a giugno il “Banana Split Festival”, una vera e propria palestra culinaria in cui tutti possono sbizzarrirsi nella preparazione di mega Banane Split.
Secondo il sindaco della città, Hazard ha attratto numerosi studenti dell’Università di Wilmington nel suo locale. Arrivati nel suo ristorante, Ernest chiese a tutti, compresi camerieri e cuochi, di inventare un nuovo dolce da sottoporre al giudizio dei clienti. Dato che nessuno propose una ricetta accettabile, Hazard preferì preparare il dessert da solo, tagliando in maniera longitudinale una banana ed inserendo ad essa come ripieno del gelato.
Se non si sa con certezza l’inventore della Banana Split, si conosce in maniera indubbia chi ha contribuito in maniera fondamentale alla diffusione di tale dolce: è la catena di ristoranti Walgreen’s. Il primo proprietario di tale compagnia, ovvero Charles Walgreen, scelse la Banana Split come principale dessert dei suoi bar: in breve tempo, la Banana Split divenne la vera e propria “mascotte” della Walgreen’s, e non una semplice portata come tutte le altre.
Attualmente, il ristorante fast-food Dairy Queen vende ogni anno 25 milioni di Banana Split nei soli Stati Uniti d’America.
Banana Splits è anche il nome di un programma televisivo americano per bambini e di un gruppo musicale statunitense.

(font: wikipedia)

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – fine

Sono stanco, voglio ritornare a casa e prepararmi una bella tazza di thè, accendere una bacchetta di incenso, chiudere la finestra e stravaccarmi sul divano senza avere niente a cui pensare. Fermarmi un attimo, almeno io, che tanto a fermare il mondo, quello non ci riesco a farlo.
Semafori sadomaso che non vengono più rispettati, motori accelerati e uomini sempre più maleducati nelle loro parolacce mentre attraverso la strada, questo incontro sulla via: strombazzamenti che mi stordiscono insieme alle troppe parole ascoltate e lette oggi, troppe puttanate, troppi affannosi pensieri che non riescono a dileguarsi. Che vita di merda! continuo a ripetermi, ma so che non è così. Quest’anno avremo un’altra estate torrida, si vede dalle nuvole che ci sono sulla mia testa, da questo accanimento pluviale che mi fa venire il torcicollo nel cervello mentre dovrei cominciare a preparare i registri in vista degli scrutini ma non ne ho voglia, voglio sprofondare, ecco, magari trovo un tombino aperto e inavvertitamente ci casco dentro procurandomi una frattura mortale. Sicuramente di questo incidente se ne gioverebbero i miei genitori turisti, visto che tutte le assicurazioni che pago ogni mese sono intestate a loro nome. Chissà se almeno i fiori me li portano, al camposanto! Sottoterra, mi raccomando. Niente lapide e stele funeraria, solo vermi che entrano ed escono senza imbarazzo dalle mie cavità ossute.
Invece, al posto di un tombino aperto mi ritrovo Scianga senza stampelle appoggiato alla sua macchina, lo vedo dall’inizio della strada che imbocco, il piccolo corridoio che separa i due palazzi, dove non passano le automobili e i bambini giocano a palla e gli stendipanni sono sparsi e le signore confabulano da un balcone all’altro e tutto si ferma un attimo mentre passo, non so perché ma ho questa impressione. Vedo Scianga che si agita e mentre mi avvicino sembra che voglia dirmi qualcosa, si agita e vorrebbe stare dritto mentre continuo a camminare verso di lui e comincio ad intravedere una sagoma nera, la volante dei carabinieri di stamattina parcheggiata ancora una volta sul marciapiede e davanti al mio portone. Agitati pure, caro il mio Scianga, perché ora non sono più capace di intendere e di volere, mentre entro nell’atelier del segaossa con il ringhio nervoso del cane del contadino lambrettato che la mattina va alla cambagna, e scusatemi tanto cari i miei carabbinieri nel regolare esercizio delle vostre funzioni, ma adesso mi avete stufato perché io devo entrare dentro casa, che non ce la faccio più quindi voi due ora spostate il vostro culo in uniforme e togliete subito la vostra volante, che il nostro caro amico segaossa adesso ve la prepara la fettina di carne per le vostre mogli che evidentemente non sono soddisfatte della vostra, di carne. Che non per niente il nostro segaossa qui presente è titolare di una macelleria equina, quella giusta per le vostre donne. Ma tu, segaossa, hai questo ghigno che non mi convince mentre fai il giro del bancone sfregando il tuo coltello contro l’acciaino, un dèja vu imbarazzante, che sta cominciando a farmi venire la pelle d’oca e anche voi carabbinieri, avete un sorriso che si sta trasformando mentre mi venite incontro e alle vostre spalle vedo affacciarsi all’entrata Scianga, Michele il pazzo, il contadino cambagnolo con il suo cane latrante, i miei vicini, Donata, Mimì e il gatto bianco, e all’improvviso capisco tutto, mentre mi trovo perduto e indietreggiante e mi viene in mente il film Delikatessen, ma non ho più posti in cui andare tranne che il muro piastrellato bianco contro il quale mi appoggio mentre uno dei carabbinieri estrae la pistola e l’ultima cosa che vedo è un bagliore folgorante, bianco come la purezza.

Poi distolgo lo sguardo. Il sole mi sta accecando, così guardo in giù, verso il mare e il promontorio del Conero. La spiaggia è bianca e in lontananza vedo una cascina blu, il Clandestino, appoggiato sugli scogli e sotto l’ombra della torre. C’è un buon profumo nell’aria, i miei piedi sprofondano nel terreno argilloso umido e nelle spighe di grano ancora verdi.
– Allora, ti decidi a venire o no? – sento alle mie spalle. Così mi giro e vedo il cielo viola all’orizzonte contro il quale i capelli ricci della mia amica si muovono come tentacoli. Mi giro ancora verso il mare e scatto una foto. Sembra di essere sulle bianche scogliere di Dover.
– Arrivo! – dico ad alta voce.
Si, arrivo, ripeto mentalmente. Mentre mi avvicino a lei con i piedi pesanti di fango, le stringo la mano e le dò un bacio tra i capelli profumati di salsedine.

Dissolvenza in nero.

“ Well, you get up every morning
and you see, it’s still the same
all the floors and all the walls
and all the rest remains
nothing changes fast enough
the hurry, worry days
it makes you want to give it up
and drift into a haze

revelations seems to be another way
to make the days go faster anyways… “

Husker Du

Quando la realtà supera di gran lunga la fantasia – titoli di coda

Tutto quello che è stato narrato in questo racconto è assolutamente vero…vi sembra strano? Eppure è così. Naturalmente colpo di pistola esploso dagli sbirri a parte! Volevo raccontare di un determinato momento storico sia della mia vita che italiano: la riforma scolastica dela Moratti. Alejandro Jodorwsky lo definirebbe un atto panico, il bisogno di esorcizzare, scrivendo, un momento di crisi non solo interiore. Diciamo che mi è servito come cura, e non solo a me (tu sai di cosa sto parlando, vero R. ?).
Naturalmente c’è un po’ di tutto, la realtà, la fantasia, la cucina, il caffè ma soprattutto Molfetta, la città che amo con le sue contraddizioni e i suoi abitanti che per quanto alcuni di loro siano alquanto bizzarri, rendono le giornate piacevoli e divertenti (senza riderne troppo, si potrebbe rischiare di non tornare a casa, la sera, con tutte le ossa intere…).

Questo racconto è dedicato a Raffaella. La descrizione del Prof. Linguetti e del Sistema Olistico è sua.
E anche dedicato a Scianga e al Lambrettato, che intanto sono passati a miglior vita.

Il segaossa: in realtà sono due fratelli, uno ha una macelleria equina e l’altro una generica in due parallele sotto la casetta dove si svolge la storia. Ho frequentato quella strada per anni visto che la stanza in cui suonavo con i miei amici si trovava esattamente al centro delle due. Se avessi potuto li avrei evirati. Ho sempre visto in loro degli sporchi maniaci. Sarà forse il contatto con la carne? E poi mi prendevano sempre in giro…almeno, l’avessero fatto guardandomi negli occhi!

I carabbinieri: degni compari dei due segaossa, erano sempre nella macelleria equina, non ho mai capito a far cosa, con la volante parcheggiata sul marciapiede a bloccare l’entrata del portone. Ho realmente avuto un alterco come quello descritto, ma non erano loro e non nel segaossa equino.

La mia migliore amica: era in realtà la proprietaria di casa e la vera protagonista del racconto. È lei la maestra e io le ho pitturato la casa con indosso un camice bianco che mi faceva assomigliare ad una via di mezzo tra uno dei teletubbies e uno spermatozoo. Però sono venuti bene, i muri!

La banca: è inutile che vi dica quale sia, a Molfetta penso ce ne sia solo una con il siluro ad impronte digitali. Giuro che quando sono entrato in banca e mi sono sentito fare quelle richieste dalla vocina computerizzata, non ci potevo credere. Non so se utilizzano ancora lo stesso sistema, intanto ho cambiato banca. Ci sono davvero entrato scalzo, non ne potevo più.

Il cassiere: ora, arrivati a questo punto, se tu ti riconosci in questa descrizione ti prego, non volermene. Non ti sei mai fatto i cazzi miei e sei sempre stato gentile con me, era la tua “capa” a rompere i coglioni! Però dovevo usare la licenza poetica, capisci? Quindi il fine giustifica i mezzi…peace and love, amico mio.

Scianga: ovunque tu ti trovi adesso, spero che le tue gambe siano perfette. Spero che tu stia correndo sulle nuvole, spero che al posto di quella bruttissima moglie che avevi (ma come hai fatto, eh Scianga? È proprio vero che l’amore non conosce barriere…) ti abbiano dato uno di quegli angeli bellissimi…non me ne volere per le parole che ho scritto su di te però diciamoci la verità, eri un bel paraculo, eh Scianga?

Allegra Famigliola: è inutile aggiungere nulla. Sono ampiamente descritti nel racconto.

Il Lambrettato: anche tu, lambrettato mio, spero che ti abbiano regalato il giardino dell’ Eden dove i frutti non hanno bisogno di esere curati e dove sempre splende il sole. Ti immagino su una nuvola a forma di lambretta…VAI CHE SI VOLAAAAAAAAA!!!!!!!

Svetlana: io non l’ho mai conosciuta. Era una collega della mia migliore amica. La descrizione è sua. Anzi no, una volta l’ho vista, di sfuggita. Aveva davvero un seno prosperoso…

Stanley: il primo ed unico pesce rosso con la coda da squalo, le cacche da 20 cm e poeta futurista muto. Stanley, che il Grande Oceano possa averti accolto con il rispetto che meriti e che Nettuno abbia costruito per te un bellissimo anfiteatro con pulpito.

Lapis: sei proprio un coglione, oltre ad averlo piccolo…non so cos’altro dirti.

La figlia della signora Carlomagno: è la figlia della signora Carlomagno…una scassapalle micidiale. Mentre l’allegra famigliola si divertiva a tenere il volume di radio e televisione alti, nessuno si azzardava a fiatare. Bastava ascoltare un po’ di Beck per sentire il suo odore nauseabondo dietro la porta.

Donata: come sta tua figlia, Donata? È cresciuta? E tu, come stai?

Il Clandestino: difficile descrivere il Clandestino. Per me è stato il luogo della mia rinascita, sia fisica che spirituale. In un buco di cucina sotto gli scogli, ho sfornato centinaia di piatti meravigliosi. E ogni piatto è stato un mattone che ha contribuito a ricostruirmi. Il momento più bello di ogni giorno è stato quello che io chiamo “l’ora delle lucertole”, il momento esatto in cui il sole si sta avvicinando all’orizzonte e tutti i granchi escono dalle tane quasi a volerlo salutare. In quel momento mi affacciavo anch’io a perdere il mio sguardo nel blu intenso, nell’orizzonte che non si vedeva, sul bordo dell’attesa a masticare maledizioni e a piangere e a bruciarmi di quelle lacrime. Se non ci fosse stato Il Clandestino e la mia migliore amica a tirarmi per i capelli, non credo che avrei ricominciato a fare il cuoco.

Beh…onestamente non so se ci avete guadagnato!

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DELIKATESSEN (24 ore Clandestino) – 7 parte

Le sei meno venti.
Alle sei meno cinque non fanno entrare più nessuno in Posta. Alzo il passo. Cerco di prendere scorciatoie impossibili scansando in uno slalom disarticolato le persone che si affannano dietro le bancarelle dei fruttivendoli sparse qua e la, cariche di buste gonfie e passeggini vuoti dei bambini, ma strabordanti di rotoli di carta igienica e detersivi. Mi squilla il telefonino. L’amica mia bellissima.
– Amore mio…
– Oh! Ma che hai? Che stai facendo che ti sento tutto affannato?
– E che sto facendo, che sto cercando di arrivare in Posta a pagare le bollette prima che chiuda?
– E vabbè, non ci potevi andare domani mattina?
– E a scuola chi ci va?
– Ma che cazzo, a scuola non puoi andare un po’ più tardi? Ma che ti credi che senza di te non fanno lezione? Quando vogliono loro ci devi stare dalla mattina alla sera, e quando serve a te una mezz’oretta per le bollette, manco per il cazzo, scusa eh!
Cammino. Sento il mio fiato affannoso. Il braccio destro indolenzito. Con te non posso incazzarmi, lo sai che ti voglio bene. E hai ragione pure tu, però.
– Lo so, lo so…che ci posso fare se sono fatto così? Senti, adesso è andata, mò vado a pagare queste cazzo di bollette che mi hanno pure ingoiato il bancomat, e poi domani si pensa. Passi da me stasera? Cucino io.
– Che mi fai?
– Penso di avere delle zucchine, la scamorza affumicata, dei pomodorini, i moscerini…compro l’avocado che ti faccio un po’ di guacamole?
– Insomma, hai le solite cose!
– Eddai! Ti faccio la crema al cioccolato con le amarene…
– Mmmmmhhhh…che mi dai in cambio?
– E che ti do in cambio?…Dai, prenoto una cena a Senigallia per la settimana prossima, mi prendo due giorni a scuola e ci andiamo, ci stai?
– Ma dormiamo insieme?
– Se per te non c’è problema…
– Va bene, accetto!
– Ma almeno tu, mi vuoi bene?
– Certo che sei proprio stupido!
– Grazie, sapevo che potevo contare su di te. Sono davanti alla Posta. Ci sentiamo dopo.
– Fai il bravo…
– D’accordo…

– No scusi giovanotto, ha visto che ore sono?
– Sono le diciassette e cinquanta, e allora?
– Veramente il mio orologio fa cinquantatre.
– Veramente sono in orario, quindi prendo il numerino e faccio la fila mentre lei è meglio che continua a fare il suo lavoro, che io pago le bollette, se lei me lo consente. Oppure non è consentito?
– Eeeeeeeeh…quanto chiasso! Vada, vada. Che altrimenti non fa in tempo!
Ma guarda questa imbecille che mi fa rimanere di sasso mentre si gira di spalle e se ne va. Prendo il numerino. Il mio è l’ottocentosessantaquattro. Siamo al cinquantanove, tutto sommato è quasi arrivato il mio turno. Ci sono tre donne e un uomo che occupano gli sportelli aperti. Dietro i vetri, i posti sono occupati da tre donne e un uomo, guarda caso, che si vede che non vedono l’ora di andarsene via, di finire le loro canoniche otto ore passate davanti ad un terminale e a parlare con gli avventori delle bollette, casalinghe, pensionati, onesti lavoratori e imbecilli come me, che si fanno prendere la mano da questa vita tutto sommato divertente, che non ha mai un giorno uguale all’altro…ma forse mi sbaglio. All’interno della sala gli altri impiegati corrono frenetici, non ne capisco il reale motivo, o forse si, anche per loro vale il discorso di voler lasciare questo posto nel più breve tempo possibile. Un portapacchi amico mio entra con il suo carico di pacchi da registrare.
– Toninooo…- gli fa una delle impiegate – e non potevi arrivare prima?
– Ma ttu lo ssai che ttraffico che ci staa a quest’ora pper strada, o no? – risponde Tonino alla collega mentre mi guarda e mi fa l’occhiolino, in segno di saluto.
Io attendo dietro la mia linea gialla e mi sposto per far passare Tonino, che lui parla davvero così, non lo faceva apposta per prendere in giro la collega.
Ecco il mio turno, annunciato da un dlin-dlon e dal display luminoso dai led rossi: ottocentosessantaquattro.
– Buonasera! – faccio cordialmente all’impiegato uomo, mentre passo i bollettini sotto il vetro senza ottenere una risposta, anzi, comincia a fischiettare ignorandomi, si gira e se ne va.
Ma come cazzo è?
Ma non andavate tutti quanti di fretta?
Rimango sinceramente basito, immobile, incapace di pensare al perché di un comportamento del genere, ai limiti dell’educazione e della professionalità spesso ribadita e sottolineata nelle pubblicità che trasmettono in televisione.
Eccolo che ritorna. Ma neanche scusa mi chiedi? Vabbè, l’importante è che ci sbrighiamo.
– Duecentosettantotto e venti! – mi fa dopo aver infilato i bollettini nel computer.
Gli passo i soldi, anche i centesimi ti metto, brutta faccia di merda…
Il suo viso è asettico, impassibile, mentre si passa i soldi tra le dita per controllare se sono veri o falsi, e guarda me, per vedere se sono affidabile forse?
Brutta faccia di merda, continuo a ripetere mentalmente, brutta faccia di merda…poi mi dà i bollettini. Li prendo, li piego, li infilo in tasca e me ne vado fuori dai coglioni.
Brutta faccia di merda…

La notizia che più mi ha colpito oggi al TG, più di tutti i morti della guerra e delle stronzate dette dal faccione, è stata quella dell’eliminazione dai programmi scolastici ministeriali del prossimo anno, da parte della Moratti, della teoria evolutiva Darwiniana. Veramente questa cosa si sapeva già da un bel po’, ma non pensavo che si arrivasse davvero a questo. Siamo in un regime, dobbiamo per forza credere che l’uomo è nato da una scoreggia di Dio e che la donna è nata da una sua costola. Che puttanata! Allora, tutto quello che è stato studiato fino ad ora? Tutti gli esperimenti e le ricerche e le ore passate da eminenti dottori e scienziati nel dare credito a questa teoria, motivandone i risultati ottenuti con prove efficienti e robustissime?
E i miei “onestissimi e educatissimi” vicini di casa? Io mi rifiuto di credere di essere stato creato dalla stessa persona che ha dato alla vita questa gente, non per essere razzista, ma è come se in quel momento il cosiddetto Grande Architetto sia rimasto vittima di un’alitosi nauseabonda, pericolosa, giocherellona e incurante. Perché i miei “nobili” vicini di casa devono essere per forza il frutto di una mutazione genetica che li ha portati ad evolversi in un contesto culturale a loro estraneo, come gli scarafaggi che giorno dopo giorno diventano più coriacei e resistenti agli insetticidi, continuando a bighellonare e a nutrirsi di trappole altrimenti mortali. Così immagino il mondo scientifico tutto alzarsi in rivolta, manifestare con festosi e giocosi girotondi morettiani sotto il Parlamento, indossando maschere dalle sembianze di scimpanzé con in mano grosse banane e poi buttarne le bucce davanti all’entrata per far fare dei grossi scivoloni ai nostri parlamentari belli, quelli che si dice ci governino dall’alto dei loro scranni.
A questo penso mentre entro nella vetreria, fogliettino in mano e sguardo speranzoso. Forse un po’ troppo perché al mio buonasera non ottengo risposta. Il laboratorio è deserto. Davanti a me un enorme tavolo in ferro, sembrerebbe, con vari attrezzi sparsi, righelli che ho visto solo in casa del mio amico architetto, normografi e resti spuntati di vetri di vario spessore. Per terra polvere, tanta polvere. Che scricchiola sotto i miei passi gommati, quindi polvere di vetro. In un angolo alla mia sinistra, appoggiate al muro, altre lastre di vetro di diverse misure, sulla mia testa un argano minaccioso come una spada di Damocle e alla mia destra una porticina che si apre lasciando uscire (o entrare, dipende dai punti di vista) un bambino su un triciclo tipo Shining che si ferma proprio davanti ai miei piedi, mi guarda con quegli occhietti ghignanti, poi punta i piedi per terra, si dà una spinta all’indietro, fa dietrofront e ritorna da dove era venuto.
Si riapre la porticina.
Questa volta ne esce una signora graziosa che dovrebbe essere la mamma del bambino, capelli neri in una treccia lunga dietro la nuca, forse quarantenne, in saloppette e maglietta a mezze maniche nonostante il freddo. Accosta la porta alle sue spalle e si dirige verso di me con un “Buonasera, dica…” flebile che quasi mi mette in imbarazzo.
– Salve, volevo sapere se si potevano fare delle mensole di questo genere in vetro – le faccio mostrandole il foglietto piegato e pieno di disegni apparentemente regolari e pieni di numerini.
– E questi numeri dovrebbero essere le misure?
– Si – le rispondo.
– E per che cosa le deve usare? Che ci deve mettere sopra?
– Volevo metterci dei libri !
Mi guarda. A lungo e in un modo che mi sembra di essere attraversato dentro, come se mi stesse leggendo i pensieri. Poi riabbassa lo sguardo sul foglio rivolgendo di nuovo l’attenzione ai disegni.
– Gliel’ho chiesto per sapere lo spessore…si, si possono fare queste mensole però ho bisogno di un po’ di tempo e sinceramente adesso non so dirle neanche la spesa.
Rimango un attimo spiazzato. Non so cosa dirle perché almeno su quest’ultima cosa mi ha anticipato. Allora adesso, che non ho più voglia di discutere con nessuno, le dico che va bene, che non ho fretta, che mi chiami lei, ora le lascio il mio numero di telefono, se non rispondo non si preoccupi, lasci un messaggio in segreteria che poi mi rifaccio vivo appena posso, le lascio un acconto? No? Va bene, allora aspetto una sua chiamata, arrivederci…
– E il vetro, di che colore lo vuole?
– Lo voglio trasparente! – mi giro e me ne vado, ritornando a immergermi nel traffico pedone in cui cerco di perdermi con fare anonimo.
Ma non penso di riuscirci più di tanto perché spavento una vecchietta appena giro l’angolo, che si avvicina al muro stringendo a sé la sua borsetta. E mi viene da sorridere.

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 6 parte

Riprendo in mano il foglietto su cui ho ricopiato il disegno delle mensole, e mi accorgo che dietro il portapenne giace un mucchietto non ben identificato di foglietti accuratamente piegati e dimenticati: la bolletta del telefono, la bolletta della luce, la rata della spazzatura, il bollo della macchina, estratto conto della carta di credito, estratto conto di quello che rimane sul mio conto in banca, una lettera da parte della assicurazione di mancato pagamento delle ultime due rate perché la banca, che stamattina mi ha telefonato perché voleva i soldi, ha fatto un po’ di confusione con alcuni documenti, e per finire la rata invernale del gas. Ad uno ad uno ripasso tra le dita quei bollettini come fossero le figurine dei calciatori Panini. Me n’ero dimenticato, preso da tutt’un’altra serie di cose e pensieri, avevo accumulato tutte quelle bollette e le avevo messe lì, consciamente o no le avevo nascoste dietro il portapenne lasciandole fermentare ed ora è giunto il momento della resa dei conti: fra due giorni scade il termine di pagamento di bollo e telefono, fra tre il gas e fra quattro luce e spazzatura. Le rate della assicurazione è meglio non calcolarle, tanto ci pensa la banca che sicuramente fra un paio di giorni mi ritelefonerà per invitarmi un’altra volta al suo cospetto.
Che fare?
Guardo l’orologio, sono le cinque meno un quarto e se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivare in posta, pure a piedi se alzo il passo. Infilo le mani in tasca per vedere quanti soldi ho: pochi. Apro la mia cassettina porta risparmi casalinga: pochi anche qua dentro. Devo comunque passare da qualche sportello bancomat per fare un prelievo, così la banca mi ritelefona domani stesso, altro che fra un paio di giorni. Già che ci sono passo pure dal vetraio, così gli faccio vedere il disegno e sento lui cosa dice, se si può fare la cosa oppure no.
Faccio un caffè. Ho tempo pure per quello. Senza pensarci accendo una sigaretta e mentre la aspiro mi prende il panico perché ora, la combinazione tra caffeina e nicotina mi procurerà un effetto indesiderato allo stomaco che mi costringerà, come al solito a quest’ora, a correre nella toilette. Vabbè, ormai è fatta. Finisco la sigaretta. Intanto il caffè è uscito e lo bevo. Come da programma, corro nel bagno. Mentre assolvo alle mie funzioni corporali, maledico qualcuno perché devo correre e sono già sudato e non ce la faccio più a rincorrere il tempo che non vorrei essere suo schiavo, però il fatto è questo: o scendi a compromessi con la vita e cominci a correre anche tu e ti metti a fare le file ai vari sportelli pubblici, oppure mandi tutto a farsi fottere e te ne vai a vivere nei boschi, che mi sa che è meglio.
Seduto sul water.
Di fronte ho lo specchio che riflette la mia immagine. A dire il vero la riflette sempre, ogni volta che mi siedo. Ogni volta guardo il mio viso assumere pose sgraziate e le vene sulla fronte gonfiarsi, e la fronte stessa che diventa rossa e gli occhi che strabuzzano…oh Signore benedetto! Suonano alla porta, cazzo, ALLA PORTA! Ma perché? Mi viene quasi da piangere. Perché? Perché? Perché? Mi alzo, mi lavo e mi sciacquo il viso, è già tardi.
– Un attimo – grido dal bagno.
Apro la porta. Donata, una delle donne che abitano nel palazzo di fronte, forse la persona più tranquilla che mi capita di incontrare per strada quasi tutti i giorni.
– Ciao professò, che ti disturbo? – mi chiede incuriosita dal mio aspetto trafelato.
– No Donata, tu non disturbi mai, lo sai – le dico mentendo. – Stavo uscendo per andare a fare dei servizi, sai, le bollette – .
– Eh! Sono diventate un vero guaio, queste bollette. Non le reggo più, poi da quando ci sta questo euro, mi sa che ce l’hanno buttato tutto al culo…- diventa rossa in viso e si porta la mano alla bocca. – Scusa professò, e che adesso a mio marito l’hanno messo in cassa integrazione e ci sono i bambini che vanno a scuola e crescono e come devo fare, mannaggia!-
Ti prego Donata, non fare così, non metterti a piangere, cerca di trattenere le lacrime, ho fretta, ti prego non farlo.
– Su Donata, non fare così, vedrai che le cose si sistemeranno prima o poi – cerco di rassicurarla mentendo anche questa volta.
– Senti professò, il piccolo deve andare ad una festa di compleanno di un suo amichetto di classe e allora ti volevo chiedere se mi scrivevi un bigliettino per il regalo che io avrò tanto sentimento, ma proprio l’italiano non lo so scrivere – .
Benedetta Donata! Ti prenderei le guance a morsi, quanto sei tenera.
– Entra Donata, entra – e mentre le prendo il bigliettino e ci scrivo sopra qualcosa, lei mi confida -…che la figlia dei grezzoni che abitano sul pianerottolo, la piccola, quella brutta che sembra PippiCalzeLunghe con quel cesso di fidanzato, è al sesto mese! – .
Rimango un attimo fermo e spiazzato da quella notizia.
– Davvero?
– Si, davvero! E che non si vede?
– E no che non si vede, scusa. Non vedi come ci sono rimasto? E poi dove l’avranno concepito, nel portone?
– Forse!
– E adesso? Già fanno casino così, figuriamoci ora che ci sarà un altro inquilino…e poi dove si metteranno, che a malapena entrano così come sono, in quell’appartamento?
– Bho! E che ti devo dire io, professò…non pagano neanche l’affitto, non pagano!
– Ma come fate ad essere sempre così informate di tutto e di tutti? – le dico restituendole il bigliettino. – E chissà quante ne dite su di me, brutte pettegole che non siete altro! –
– Ma no professò, che su di te non abbiamo mai avuto niente da dire, tranne che fai le ore piccole con quell’amica tua bella, che è proprio bella…ma che per caso siete fidanzati?
– Senti Donata, vedi un po’ se ti va bene il bigliettino? Sai com’è, avrei un po’ di fretta – le dico con un sorrisino glissando sull’argomento. Lei lo legge e quasi le vengono i lucciconi agli occhi.
– Grazie professò, veramente. Non so come sdebitarmi!
– Ma tu non ti devi sdebitare. Basta che mi tieni informato sui vicini.
– Si professò, ci vediamo allora. Buona giornata!
– Buona giornata a te!
E speriamo.

Questo piccolo imprevisto mi fa spostare la mia tabella di marcia, devo passare dalla banca, la posta chiude alle sei. Infilo pantaloni grigi e magliettina gialla, maglione slabbrato nero, il cappotto, capelli schizzati, occhi nel panico…ricomincio ad incazzarmi. Chiudo la porta dopo aver preso carta di credito, bancomat e bollette. Scendo in strada. Sulla mia sinistra, la solita macchina parcheggiata del tipo che abita di fronte. Sembra che lui abbia un qualche diritto di proprietà su questo marciapiede perché la parcheggia sempre qui la macchina, mattina, pomeriggio e sera, e poi il vecchio contadino lambrettato viene a scassare le palle a me che lascio la mia di macchina per cinque minuti sul marciapiede. Vabbè, lasciamo stare. Scianga è appoggiato alla sua macchina, senza stampelle. Scianga, Scianga, mi sa che un giorno di questi fai una brutta fine, cadi per terra e ti spacchi il muso, guarda che io ti ho avvisato! Il segaossa è già aperto, sento il rumore che ho sentito stanotte nel sogno: l’acciaino sfregato dalla lama del coltello. Un brivido sottile mi sale lungo la schiena.
È tardi.
A passo spedito vado al primo bancomat che sta proprio a cinquanta metri dal portone e faccio due conti. Con i soldi che ho in tasca e il massimo che posso prelevare dallo sportello arrivo a racimolare la splendida somma di trecentoventieuri. Non mi bastano, ce ne vogliono almeno quattrocentocinquanta se voglio pagare più o meno tutto lasciando perdere il bollo. Allora decido di fare due prelievi, uno con il bancomat e l’altro con la carta di credito. Infilo prima la carta. Digito il codice. Duecentocinquantaeuri che vengono sputati fuori in cinque pezzi da cinquanta. Desidera lo scontrino? No grazie, troppi ricordi poi. Ritirare la carta entro trenta secondi, prego. Non preoccuparti, neanche la bocca devi aprire. Ripeto l’operazione con il bancomat. Digitare il codice, prego. Digito il codice. Digitare il codice, prego. Ridigito il codice. Lo schermo si fa grigio. Sento un rumore arrivare da qualche parte dietro il video. Una scritta rossa. Spiacente, la sua carta è stata catturata. Per informazioni rivolgersi al proprio sportello. Grazie. Cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo! Perché? Se mollo un cazzotto allo sportello lo sfondo. Dietro di me c’è un signore che tossisce, spazientito. Cazzo, cazzo, cazzo! Mantengo la calma. Guardo il video. Intravedo la mia sagoma riflessa dietro la scritta lo sportello è pronto per una nuova operazione. Ma vaffanculo, va! Devo essere bello incazzato perché quando mi giro, il signore alle mie spalle si allontana spaventato.
Mi dirigo alla posta. Ormai è andata così, domani devo passare dalla banca un’altra volta e oggi sono costretto a pagare solo telefono, luce e gas. Alla spazzatura e al bollo ci penso domani, se mai ne avrò voglia e tempo.

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 5 parte

Chi l’ha detto che il miglior amico dell’uomo è il cane?

Io, per esempio, ho un pesciolino che non so che tipo di pesce è ma quando l’ho visto nel negozietto di animali, che nuotava insieme ad una miriade di altri pesci, me ne sono innamorato. Perché ha una bella coda, morbida, fluttuante, quasi in contrasto con il suo corpo piccolo e panciuto e che assomiglia tantissimo ai capelli della mia migliore amica. Lo tengo in una boccia trasparente sopra la televisione, è l’unica presenza della casa oltre a me e ai moscerini che da un po’ di tempo svolazzano indisturbati, e non ho ancora capito da che parte vengono fuori. Il pesce si chiama Stanley.

Stanley è educato, non sporca e non parla mai a sproposito. Mangia poco e io gli dedico poche attenzioni, inoltre non devo portarlo a spasso la sera per fargli fare la pipì e non mi riempie la casa di peli. In compenso lui fa delle cacche che certe volte mi chiedo da dove gli vengono fuori, visto che raggiungono la lunghezza di quasi dieci centimetri. Però, a pensarci bene, lui di parlare parla  eccome. Nella boccia gli ho messo, al posto dei soliti sassolini da acquario, delle pietre colorate, quelle di vetro che si vendono nei negozietti ex tutto millelire. E lui sembra contento perché c’è un po’ di colore. Allora di notte lo sento, mentre sono a letto, che le sposta facendo rumore. E mi piace pensare che stia declamando delle poesie futuriste a modo suo, mute ma rumorose. Ed è bello perché mi fa compagnia, mi fa sentire meno solo. Anche quando ha fame sembra che parli, perché si avvicina al vetro della boccia e apre la bocca di più, ritmicamente, e sembra che dica TEN GO  FA ME, come sta facendo adesso che sono sul divano e lo guardo. Così ripiego il fascicolo sulla riforma e prendo il barattolino del mangime, lo apro e come al solito un accidente di puzza mi assale le narici. Ma come fai a mangiare questa robaccia liofilizzata che assomiglia a dei coriandoli? Galleggia pochissimo sulla superficie dell’acqua perché Stanley ci si butta a pesce, della serie. Metto un po’ di musica.

Non so che fare.

Da tempo il lato destro della parete di fronte a me è vuoto. Su quello sinistro ho appeso una tela della mia amica che rappresenta un sole, che una persona ha detto che sembra un leone, e un’altra ha detto “che cosa è, un drago?”. Ma dove lo vedi il drago? I misteri dell’arte, ognuno ci vede quello che vuole… 

Invece Erika, la mia nipotina, quando l’ha visto ha detto “chebbellozzioilssoleddentrocasatua…”. Ah, beata innocenza fanciullesca! E la mia, di innocenza, dove è andata a finire?

“Dove sono i miei sogni d’oro e tutto quello che di luminoso avevano promesso in coro?” cantano i Madrigali Magri quando ogni tanto si ricordano di cantare.

Guardo ancora il lato destro del muro fissandolo. Penso che ci vorrebbe una libreria ma non c’è spazio dentro casa. Ho da poco finito di pitturarla. Non lo facevo da quando sono venuto a vivere qui, cioè da sette anni. I muri erano diventati di un bianco opaco ed era rimasto il segno dei mobili che c’erano prima e che ho regalato ad un mio amico. Invece mi sono fatto restaurare una credenza del 1900 di una mia zia che è morta, e mi diceva sempre quando ti sposi te la regalo, e io invece non mi sono sposato mai.

Che bella che è la credenza.

Mio padre mi ha dato una scrivania dello stesso periodo che lui usava nel suo studio, ma era diventata troppo piccola per lui e per la sua mania di distribuire fogli e documenti dappertutto. Allora me la sono presa io. Una volta che ho tirato via tutti i mobili, non sapevo dove mettere la televisione. Così ho pensato che per il momento poteva rimanere appoggiata su un cassettone di quelli uguali ai forzieri dei pirati. Fosse stato per me, pure per terra ma non sarebbe stato carino, visto che come dice Beppe, il mio amico chitarrista, sono uno strappone. 

I muri andavano assolutamente pitturati un’altra volta. Amica mia, ti andrebbe di pitturare insieme a me i muri di questa casetta che un giorno te la regalo?

– Assolutamente no! Io non so pitturare e le spennellate mi vengono fuori una chiavica. E poi non ho tempo – mi rispose la mia amica con i capelli coda di pesce.

Così chiesi l’aiuto ad un mio amico, tale Lapis, che si dimostrò davvero entusiasta fino a che, di punto in bianco, a mezzogiorno in punto del secondo giorno di pitturazione, mi mise il pennellone in mano e mi disse:

– Guarda, mi dispiace ma ho un appuntamento IN DE RO GA BI LE – si girò aprendo la porta e andò via. E non si fece più vedere lasciando qui un cartone che ho buttato con scarpe da ginnastica, tuta e occhiali.

E chi finì per darmi una mano? La mia amica con le pennellate che erano una chiavica ma che alla fine la casa è venuta proprio bene, con i muri color giallino, e l’incasso della finestra e della porta arancione, stesso colore di una piccola parete, quella che sta tra il bagno e le scale che portano al soppalco sulla quale ci ho appeso un quadretto portato dal Vietnam. Naturalmente, quanto mi è costato tutto ciò? La promessa di una cena a lume di candela in quel di Senigallia, e la promessa di lasciare a lei in eredità la mia macchinina che non ha niente di speciale ma le piace tanto, la casa, tutti i libri e tutti i fumetti.

Ma intanto questi benedetti libri che ora sono nei cartoni dove li metto, che la credenza è già piena e una libreria non entra? Per questo guardo la parete facendomi un’idea di come potrebbero stare delle mensole in vetro, che poi lo spazio è pure poco perché sul lato destro ci sta un ingombrante comò a cassettiera per metterci maglioni, asciugamani e ammennicoli vari destinati alle pubenda. Allora prendo un foglietto e faccio uno schizzo, metro da muratore alla mano, mentre squilla il telefono.

– Ma tu sei mio figlio, oppure ti sei dimenticato della nostra esistenza?

– Mamma…

– Si, mamma…quando ti conviene e quando non riesci a farti da mangiare…

Mia madre è così, passa da momenti di estrema dolcezza, a momenti di estremo scazzo con una facilità che neanche il mago Silvan è così veloce a mischiare le carte.

– Che fai? Non passi più da casa, tuo padre è preoccupato, ha il diabete, chiede sempre: Ma noi ce l’abbiamo un figlio? Eppure io ricordo di si. E io sempre a coprirti, a dirgli che stai passando un periodaccio, che tu sei sempre stato così, ma mica può andare avanti ancora per molto sai? Noi siamo vecchi, e tra un po’ ce ne andremo e voglio vedere come fai…

– Mamma, ho trentaquattro anni e sono dieci anni che vivo da solo.

– E che c’entra? Che ti sembra una scusa questa?

Alzo gli occhi al cielo, dopo dieci anni passati a cercare una risposta da darle a questa domanda, non so più che dirle. Diciamo che ho ormai perso la fantasia.

– Ma dove siete tu e papà, che sento un bordello bestiale? – le chiedo quando sento le urla di alcuni bambini in sottofondo.

– Io e tuo padre ci godiamo la vita davanti al golfo di Sorrento, mica come te con quella scuola lì che ti sta facendo impazzire. Non esci quasi mai, stai sempre in casa a studiare e te ne freghi di quello che ti gira intorno. Noi invece ce la spa…

E’ caduta la linea. I miei genitori hanno deciso di spendere tutti i loro beni derivati dal loro titolo nobiliare investendoli in turismo enogastronomico da colesterolo marcio, non ho capito bene se per abbreviare la loro marcia in questo mondo terreno, o semplicemente per addolcire i loro ultimi giorni. Comunque fanno bene. Potessi farlo io, che ho rifiutato tutto per fare l’alternativo dei miei coglioni!

La parete non mi convince. Non riesco a capire se è troppo piccola, se c’è poco spazio e devo spostare di nuovo il comò a cassettoni, comincio a stancarmi e mi viene voglia di buttare tutto dalla finestra. Dopo vari tentativi riesco a trovare una forma da dare alle mensole in vetro, che stiano bene sul muro senza dare fastidio e senza spostare di nuovo i mobili. Sul foglietto a quadretti ci sono linee perfettamente dritte che dovrebbero incastrarsi l’una con l’altra, formando tre livelli differenti, ci sono numeri che dovrebbero essere lunghezze, altezze e profondità, ma più le guardo e più dubito che il vetraio riesca a farmele come le ho disegnate, le mensole. Guardo il foglio. Guardo il muro. La mente è vuota e sento quel prudore sulla fronte tipico di quando sto per scoppiare, che mi sento non proprio sulla fronte, ma sotto la corteccia cerebrale che gratta gratta per uscire fuori. Comincio a grattarmi. La musica alla quale non facevo più caso, adesso mi inietta tutta la sua selvaggia prepotenza nelle dita “it’s  a sensation a bankrupt corpse on the garbage grasses with the crutches and forks”… staffilata di chitarre, le dita graffiano e Stanley comincia a nuotare nervoso in tondo nella boccia, apre e chiude la bocca, tra un po’ sto per disintegrare la radio non so ancora come.

Il campanello della porta, un trillo che mi riporta con uno scatto alla realtà, in altre parole io con il foglio in mano mezzo stropicciato e le unghie conficcate sulla fronte.

Spengo la radio con garbo.

Apro la porta.

Una signora sui quarantacinque con il grembiule da casalinga e le mani che puzzano di varechina. La figlia della signora Carlomagno, la vicina ottantenne.

– Sono la figlia della signora Carlomagno.

– Si, lo so. Buongiorno.

– La radio…

– L’ho spenta.

– Bene.

– E meno male.

– Arrivederci.

Si gira stizzita e sparisce dentro casa sua. Io rimango come un deficiente con la porta in mano e penso. Penso che tu, gentile figlia della vicina, alle ore 16 più o meno, irrorata di un persistente profumo di varechina hai per un attimo sospeso le faccende domestiche per venire a suonare alla mia porta per chiedermi di abbassare la radio, quando invece non ti degni nemmeno di andare a rompere i coglioni ai signori dirimpettai che hanno un juke box di canzoni napoletane, al posto di una radio qualunque, perché hai paura di non trovare la tua macchina stasera e io non so cosa mi trattiene dal venirti a sfasciare la porta, perché io lo so che tu ora sei dietro allo spioncino per vedere la mia reazione.

Mi avvicino allo spioncino.

Mi ci piazzo proprio davanti.

Apro la bocca.

La vedi l’ugola?

La vedi la lingua?

Questi sono gli occhi.

E vaffanculo.

 

 

Sigaretta.

Guardo fuori dalla finestra. Attraverso la tenda il palazzo di fronte con la signora che stende i panni. Un po’ di sole, ma per carità, solo per una mezz’oretta…

Mi viene in mente una canzone di Bugo “quando mi butto giù, non faccio le flessioni/non guardo neanche la tv, però mi rompo i coglioni…” . mi sento così, vorrei buttarmi un po’ giù ma non riesco a vedere il fondo, ho paura ad uscire fuori ma non per me, sto diventando un po’ troppo pericoloso per gli altri; per quanto riguarda me, non c’è nessun problema, posso farmi male quanto voglio che tanto è lo stesso.

Rientro dentro e riguardo il foglio a quadretti con linee e misure un po’ astratte. Ricopio il tutto su un altro foglietto, giusto per dare una forma più comprensibile al tutto, che sennò assomiglia troppo a quel gioco che c’era sulla Settimana Enigmistica, Questo l’ho fatto io, in cui in un quadratino ti davano un accenno di un disegno che tu dovevi completare nella speranza di vincere uno du quei meravigliosi premi che corrispondevano a televisori, videoregistratori, telecamere, phon per capelli e oggetti vari. Io mi ricordo sempre il paginone centrale, il Bartezzaghi, che io e mio padre facevamo a gara a chi lo finiva prima e ci compravamo sempre due copie. Io non vincevo mai, troppo lento. A volte davo delle definizioni alle domande troppo fantasiose, che magari entravano uguale nelle caselle e avevano anche lo stesso significato.

Accendo la tv.

Il Gambero Rosso Channel.

Mi fa venire una fame a me questo canale! Un primo piano su un tavolo con una tovaglia a quadri coperta da una scelta di formaggi che io li guardo e se fossi lì, a quest’ora non sarebbero più interi. Ci sono due tipi che aprono bottiglie di vino e mangiano formaggio facendo abbinamenti, e man mano che vanno avanti il loro occhio diventa sempre più lucido e tendente al sorriso, mentre la parlantina si fa più disarticolata. Si, questi due si stanno ubriacando marci, i vini che versano sono quasi tutti rossi e a giudicare dalla consistenza dei formaggi devono anche essere belli tostarelli. Il tipo che apre vino è rosso in viso, i suoi movimenti si fanno più lenti al contrario del suo collega che incomincia a tagliare formaggio e a masticarlo più velocemente, e beve vino con la bocca ancora piena e quasi ci manca un bel ruttazzo etilico mentre, sempre il formaggiaio, tira fuori non so bene da dove un vassoio con salumi che dovrebbero essere la finocchiona, la mortadella, il culatello che tagliano con fantasia e accanimento e ci sono i primi piani di queste due bocche che fagocitano tutto come i langolieri di Stephen King, “…ed è interessante riscoprire il perlage di questo barrique paglierino confrontato con la sapidità del culatello e la mortazza con il provolone è la morte sua io lo abbinerei ad una bella birra olandese magari trappista o anche chiara e leggera l’importante che sia fresca ora ne apro una e anche il polpo crudo sullo scoglio d’estate ma dai! E le cozze crude? Le fave novelle lo Stilton la Toma d’alpeggio in foglie di noce e questo stupendo rosso che io mi sono ordina…”

Ho spento. Questi due stavano davvero cominciando ad andare un po’ troppo fuori di testa. Il bello che li pagano pure per sparare cazzate e per mangiare e per sembrare un po’ trendy, che adesso la cucina è diventata trendy e tutti fanno corsi di cucina trendy, tutti fanno corsi da sommelier per fare i trendy con le ragazze, il cuoco è diventato un personaggio trendy, che prima quello del cuoco era considerato un lavoro sporco per fannulloni scolastici, invece ora fa la rockstar in televisione ed ha un bel viso pulito da fotomodello.

 

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 4 parte

Così, mentre faccio l’amore con il sapore dello yogurt sul divano stravaccato, e guardo la Clerici con i suoi riccioli d’oro, squilla il telefono.
– Ciaooooooo tessoroooooo, che faiiiiiiiiiiiiiiiii?
Svetlana, una delle mie colleghe un po’ zoccola che lei non sa quanto mi dà fastidio il suo modo di parlare, e che di nome vero fa Teresa ma guai a chiamarla così. A scuola viene sempre vestita che sembra debba andare a fare una sfilata di moda, alta, tacchi a spillo e scollatura che, estate o inverno, mette in mostra il suo seno caparbio e allegro nonché prominente. Truccatissima e acconciata come una diva, una bella donna, non c’è che dire, indossa sempre delle collane con pendente che fanno cadere gli occhi proprio lì, che secondo me a lei piace farsi guardare e sapere che gli uomini in generale le sbavano dietro. Tutti tranne me. E’ forse per questo che in continuazione mi dà una caccia senza quartiere. Nonostante la sua bellezza è anche intelligente e abbastanza furba, il che la rende ancora più affascinante. Unico difetto: appunto, mi dà la caccia e io voglio solo essere suo amico, e poi ha quel modo di allungare le finali che io non la sopporto proprio e adesso alzo gli occhi al cielo, cucchiaino in mano e risotto agli asparagi in formato catodico negli occhi.
– Ciao Svetlana, come va?
– Ma come vai tuuuuu…sai, oggi a scuola non ti ho vistoooooo e allora mi sono chiesta chissà che cosa gli è successo all’amico mio belloooooo…
E cosa vuoi che mi sia successo, cara la mia collega un po’ zoccola che io lo so perché mi hai chiamato?
– Di un po’, ma non è che mi hai chiamato perchè te l’ha detto la direttrice?
– Ma nooooo, ma che vai a pensareeeeeee…è stata una mia iniziativa, volevo sincerarmi che stavi beneeeeee, eddaiiiiiii. Io quando non ti vedo mi preoccupoooooo…sai come sono vestita oggiiiiiiii?
Oddio, oddio, oddio…eccola che comincia. Ma cosa vuoi che mi freghi come stai vestita? Dimmi piuttosto com’è andata a scuola oggi, con tutti i casini che ci sono e le riunioni che io ancora devo studiarmi il fascicolo della nuova riforma scolastica.
– Oggi c’è un bel sole allora mi sono messa un bel maglione nero aderente scollatooooo, poi dei bei pantaloni gessati neriiiiiii che vedessi che bel culooooo, eppoi le scarpe col tacco alto alto color rosso cardinaleeeee, se mi vedessiiiiiiiii…
Non ti vedo ma ti immagino.
– E la collana?
– La collana è una bella collana con un pendente in madreperlaaaaa, che bellooooo…
– Vabbè Svetlà, dimmi un po’ come è andata a scuola oggi?
E qui parte in quarta che quando parla di scuola, chissà com’è perde l’uso delle frasi allungate.
– Guarda, a scuola oggi non me ne parlare beato te che non ci sei venuto oggi. Questi marmocchi maleducati mi fanno impazzire non ce la faccio più questa scuola di merda e poi tutti a sbavarmi dietro pure i bambini e i bidelli. Maestra di qua, maestra di là, ma che volete da me, io c’ho una casa e c’ho pure da preparare da mangiare mica posso stare sempre a pensare a voi eppoi questa riforma del cazzo guarda non ce la faccio più che adesso dobbiamo andare pure a fare i corsi di perfezionamento la mattina, guarda, per fortuna che sono pagati e pure il pomeriggio dobbiamo rimanere che io già torno a casa distrutta la sera che subito arriva il giorno dopo e io non ce la faccio più. Eppoi la direttrice, Svetlana qua, Svetlana là, facciamo questo, facciamo quello e si chiude nel suo ufficio poi viene a scassare i coglioni che dobbiamo fare gli incontri con gli ingegneri delle ecostrutture, mafiosi bastardi che quando abbiamo scoperto l’amianto sotto i pavimenti si sono cacati sotto, con tutto il casino che è venuto fuori e poveri bambini, che adesso ci sono pure queste mense di merda che gli fanno mangiare il prosciutto avariato e i piselli rinsecchiti e pure io devo mangiare queste fetenzierie? Ma che sei matto? Che io c’ho una linea da mantenere, mica posso mangiare queste schifezze che meno male mi porto la Fiesta a scuola e lo yogurt…
Lo yogurt. Il cuoco catodico intanto ha finito di fare il risotto, lo sta impiattando. Poi l’altro ha fatto una frittata con mozzarella e spigola e una specie di spezzatino alla paprika, cazzo che fame!
– Senti Svetlana, lo so che c’è tutto questo bordello a scuola però adesso è ora di pranzo e sinceramente non ho avuto una bella giornata…
– Scusaaaaaa, tessorooooo…lo sai che mi faccio prendereeeeee…
Lo so io dove ti vuoi far prendere tu, cara la mia Svetlana!
– E tu che faiiiiii?
– Ho appena finito di mangiare lo yogurt e adesso penso di mettermi a studiare questa benedetta riforma…
– Lo yooooogurt…a me piace taaaaaanto lo yooooogurt, sai che bello a mangiarlo insiemeeeeeee?
– Si Svetlana, un’altra volta ok? Adesso ti devo lasciare che ho il risotto agli asparagi che mi aspetta. Ciao!
E chiudo il telefono. Respiro. Il pomodoro e il peperone si danno battaglia. Il vecchio toccapaccocatodico mangia sbavando. La Clerici sui trampoli salta da un piatto all’altro e sorride, sorride…e quanto sei bella, cara la mia Clerici.
Ma la mia migliore amica è più bella di te. Mi dispiace, ma quando ci vuole, ci vuole.

Svetlana non lo sa che i corsi di perfezionamento io li ho già fatti, e già, lei era assente perché è stata per una settimana fuori, è tornata a casa sua nelle Marche che lei mi dice sempre vieni a trovarmi qualche volta, andiamo al mare. Quasi quasi un pensierino ce lo faccio, che io vorrei andare a Senigallia a mangiare in un ristorantino niente male. Mi sa che organizzo uno di questi giorni insieme alla mia migliore amica. Sti cazzi, Svetlana…
A dire il vero, io di questa riforma ci ho capito poco quanto niente. Sono andato per tre giorni in un’altra scuola in cui tenevano questi corsi tenuti da altri docenti che, pensavo io, sicuramente ne sapevano molto più di me. All’entrata dell’auditorium c’era un grande poster con un arcobaleno disegnato che usciva da una nuvola, e dei bambini che facevano un girotondo tenendosi per mano sotto una grande scritta “LA SCUOLA CRESCE, PROPRIO COME TE”. Incominciamo bene!
Il corso è tenuto da un certo professor Linguetti, un uomo alto, magro, capelli bianchi, dentiera che grida a gran voce tutta la sua posticcità, sorriso finto da venditore di materassi a molle, tono della voce da imbonitore delle folle o dimostratore dei prodotti della Tupperware e atteggiamento di uomo che cavalca l’onda evolutivo-ministeriale, che gli porterà in tasca un po’ di quattrini aggiuntivi al suo stipendio di dipendente statale frustrato.
Attorno a me un’orda di insegnanti di sesso femminile in grande tenuta di maestre con tailleur o pellicciotto poco ecologico e filo di perle quando andava bene, tutte impettite e odorose di stantio che mi ricordavano tutte la mia maestra della scuola elementare, che ai miei tempi ce n’era una per classe, oggi invece ce ne sono minimo tre. Tre giorni di delirio puro. Tre giorni in cui dei concetti semplicissimi sono stati enunciati in una lingua così aulica che io sono ritornato al mio lavoro convinto di non saper parlare l’italiano. Infatti io gliel’ho detto ai miei alunni: ragazzi, guardate che vi state sbagliando, il vostro maestro la lingua mica la conosce.
Ora, seduto sempre sul mio divano accanto alla finestra, mi rileggo l’intervento del professor Linguetti cercando di capire se c’è qualcosa che mi è sfuggito, armato del mio fedelissimo Devoto-Oli, che magari lui qualche risposta sa darmela.
“…la riforma presuppone cambiamenti sostanziali, non risolvibili in un supplemento di conoscenze. Come leggiamo nel Profilo Educativo, Culturale e Professionale in uscita dal Primo ciclo, . Questo è il principale motivo per cui i docenti che aderiscono alla sperimentazione devono utilizzare un insegnamento nel quale chi insegna “ COGLIE LA PARTE NEL TUTTO E IL TUTTO NELLA PARTE (OLOGRAMMA),…”. I docenti dovranno utilizzare un approccio OLISTICO nel senso richiamato nelle indicazioni e nelle raccomandazioni, sia per quanto riguarda il versante epistemologico dei contenuti sia per il versante organizzativo: creare situazioni di apprendimento coerenti con il principio dell’unitarietà dell’apprendere, senza trascurare il PRINCIPIO OLOGRAMMATICO che coglie IL TUTTO NELLA PARTE, RICORDANDO SEMPRE CHE LA PARTE NON ESISTE SENZA IL TUTTO.”
Allora, caro il mio professor Linguetti, c’era bisogno di fare tutto questo giro di parole per dirmi che nella società in cui viviamo, velocissima e rapidissima nel creare e distruggere e mutare a suo piacimento senza tener conto della massa idiota e imbecille di cui anch’io faccio parte, le generazioni prossime e future hanno bisogno di un insegnamento totale in cui la matematica serve non solo a fare una semplice addizione fine a sè stessa, ma quella addizione serve anche a far quadrare il bilancio familiare a fine mese, oppure a stare attento a fare la spesa al supermercato per avere poi la possibilità di andare al cinema la sera oppure a mangiare un semplice gelato? C’era bisogno di parlare di ologrammi vari che io non riesco neanche a vedere le immagini nascoste, quelle magiche che devi avvicinare agli occhi strabici e poi, allontanandole lentamente, come per magia ti appare tutt’altro?
E io ai bambini che gli dico, che loro fanno parte di un ologramma? Ma se non sanno neanche che differenza passa tra sale grosso e sale fino? Ma se neanche hanno voglia di studiare, i bambini che frequentano la scuola di cui io sono uno degli insegnanti, sita in uno dei posti più malfamati della grande città, in cui la sera, se giri dopo le nove rischi di essere sparato alle gambe per sbaglio, oppure la mattina arrivano con qualche livido perché sono stati picchiati dal padre ubriaco? Che gli dico io a questi bambini che tra un po’ arrivano a scuola con la pistola? Che gli dico io a questi bambini che devi stare pure attento a scrivergli una nota sul quaderno da far leggere ai genitori, che sennò la mattina mi arrivano come tanti San Sebastiano?
LA SCUOLA CRESCE, PROPRIO COME TE.
A me, sinceramente, fa crescere qualcos’altro, la scuola…oltre alla rabbia dentro.

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 3 parte

Sul pianerottolo è venuta ad abitare un’allegra famigliola che non ti dico, di un’educazione e un bon ton che sfiorano il limite della ragionevolezza.

La mattina fanno la sveglia con caffè e dosi abbondanti di Gigi d’Alessio a volume sparatissimo, all’ora di pranzo evito di guardare il telegiornale, che tanto ascolto il loro, evidentemente saranno audiolesi, il pomeriggio fanno merenda con le canzoni napoletane sempre sparate a massimo volume e la sera, qualsiasi cosa io guardi in televisione, tengo il volume basso che tanto è inutile, il loro è più alto del mio. Dulcis in fundo: hanno un cucciolo di cane che ha tanta voglia di crescere e abbaia in continuazione, ma caro il mio cucciolo, mi sa che un bel giorno tu non ritornerai mai più a casa, schiacciato sotto le scarpe ignare dalla punta di ferro del tuo vicino di casa o dai pneumatici della mini automobile, sempre del tuo vicino di casa di cui sopra. Che io gliel’avevo detto alla mia amica, guarda che stanno affittando l’appartamento accanto al mio, a te che t’interessa, ti do il numero di telefono, chiama e muoviti che l’affitto è bassissimo e andrà a ruba.

Infatti così è stato.

Lei ha telefonato in continuazione per una settimana senza che nessuno rispondesse, poi, il giorno in cui non ha chiamato perché doveva andare a fare la ceretta, un altro cristiano, l’attuale inquilino, ha telefonato accaparrandosi l’appartamento alla comoda somma di 150 euri mensili, aggiudicato! Ma io ti voglio dire questo, amica mia, ma perché sei andata a farti la ceretta che sei bellissima così? Se proprio ci tenevi alla ceretta, te la facevo io la ceretta, gratis. Che tanto il dolore che potevo infliggerti non era niente in confronto alla comodità di cui entrambi avremmo potuto godere nell’abitare vicini. Che ne so, avremmo pranzato e cenato insieme, avremmo bevuto vino e thè indiano insieme, avremmo ascoltato la musica insieme, e magari ti avrei anche pitturato la casa, insieme. Invece no, mi tocca sorbirmi questi vicini che forse è una punizione divina che qualche Gesù Cristo vuole infliggerci, a me e agli altri del pianerottolo. E che diamine, io quaranta giorni nel deserto a fare la fame e a subire le tentazioni del Diavolo, e voi nemmeno Gigi d’Alessio? E vabbè, che ti devo dire…

La figlia dei vicini è un tipetto che assomiglia a Pippicalzelunghe versione magra, quindi immaginatevi un po’, sui 15 o 16 anni, non saprei dire, che di solito la sera si stravacca sul pavimento del portone per farsi una ricca pomiciata con il ragazzo, simile a lei, con la mascella da mastino e le pose plastiche da culturista mancato che lui crede di fare paura, invece fa solamente ridere. Io li beccavo abbastanza spesso prima, adesso evidentemente gli altri inquilini devono aver detto qualcosa perché io non li trovo più, o forse hanno cambiato ora. Insomma, una volta litigavano dietro la mia porta e sentivo che lui sbatteva lei urlando in dialetto sullo stendi biancheria che avevo messo fuori la mattina con il bucato profumoso steso, che era un piacere per il naso arrivare al pianerottolo, allora l’ho aperta la porta e gli ho detto che ero stanco, per favore, potete andare a farvi i cazzi vostri da un’altra parte oppure ad un’altra ora che adesso non mi sembra il caso, e scusate tanto… Al che lui mi ha guardato dicendomi con gli occhi pieni di rabbia, povero ventenne imberbe, tu non sai chi sono io, io ti ammazzo, e intanto non si avvicinava, io lo sguardo appannato dal sonno della controra pomeridiana, hai capito, tu non sai chi sono io, io ti ammazzo. Ma sti cazzi, e gli ho chiuso la porta in faccia mentre la piccola Pippicalzelunghe mi guardava come volesse dirmi: hai visto quanto è forte e quanto mi ama il mio boy friend? Ma andate a cagare tutti e due…

Allora sono andato in cucina e ho scelto con cura il coltello che poteva andare bene per l’occasione. Sapete, ogni coltello ha il suo utilizzo, voglio dire, non è che con quello che si usa per tritare il prezzemolo si può trinciare di netto la giugulare di una persona, non sarebbe il caso. Così, ho preso quello giapponese da sashimi, bellissimo e taglientissimo, talmente affilato da fare paura anche a me. Mi sono avvicinato alla porta e mi sono messo a origliare ma non sentivo più nulla. Ho aperto la porta e…niente, non c’era più nessuno. Peccato, mi sono detto guardando il coltello, sarà per la prossima volta.

Ora, dopo aver simpaticamente disquisito con i carabbinieri, chi mi trovo davanti che scende le scale mentre io le salgo? Indovinato, il bulletto con un ghigno trucido sulla faccia e la sua girl al seguito. Mastico un Cristo tra i denti e ci aggiungo pure ci mancava quest’altro oggi. Lui è al centro delle scale e, secondo le regole del galateo e della buona educazione, bisognerebbe spostarsi per lasciare libero il passaggio, specialmente tu che scendi dovresti avvantaggiare me che salgo cedendomi un po’ di spazio. Invece niente, io mi sposto e lui rimane lì dov’è urtandomi con forza con la spalla come a dire “questa scala è troppo piccola per tutti e due, gringo”, e scende con le gambe molli alla pistolero del far west. Mi urta, e so che ha provato una soddisfazione immensa nel farlo, e la rabbia che non ho ancora sfumato mi ribolle nel cervello, la sento che sale in maniera così prepotente da farmi fermare un attimo a testa in giù, sto per girarmi e dargli un calcio in faccia ma non lo faccio. Allora guardo la fidanzatina Pippicalzelunghe che mi sorride e quanto sei brutta, poi mi giro a guardare lui che continua a scendere e lo sento che sghignazza.

Respiro profondamente. Ho il portatile e potrebbe rovinarsi, così lascio stare e riprendo a salire e finalmente apro la porta, appena in tempo per vedere la Clerici riccioli d’oro che pesa la farina mentre canta Le Tagliatelle di Nonna Pina. E meno male che ci sei tu, cara la mia Clerici.

 

 

Di professione faccio il maestro di scuola elementare, in un quartiere molto ma molto malfamato del capoluogo di provincia di appartenenza della città in cui vivo. Ogni mattina mi faccio ventisette chilometri in macchina impiegandoci  più o meno dodici minuti. Della serie, non faccio in tempo a partire che già sono arrivato. La sera vado a dormire tardi e sinceramente la mattina, non ho proprio molta voglia di staccarmi dal letto. Non è che io abbia il sonno pesante, anzi, alle 6 di solito sono già sveglio, certe volte anche prima perché la strada è infestata da trattrici agricole e saracinesche che si aprono e vociare di contadini che si recano al lavoro e cani al seguito che abbaiano. In più, proprio sotto la mia abitazione, abita un signore anziano che la mattina anche lui va “alla cambagna”, come ebbe modo di farmi notare una sera che lasciai un attimo la macchina davanti alla sua porta per salire di sopra, a prendere una cosa che avevo dimenticato. Sovrappensiero, mi sentii spaventato da un rauco e incazzoso “giovanò, vedi che togli la macchina di qqua che addomani devo che andare a raccogliere le oliveeeee…”. Ma veramente salgo e scendo, non si preoccupi “allora non ci hai capito che la devi togliere che addomani qqui ci devo tirare fuori la lambretta che ci devo andare a raccogliere le olive in cambagna” e come te lo devo dire che salgo e scendo in un attimo mentre il tuo volpino mi abbaia da dentro la porta e poi perché cazzo non te ne vai a dormire che addomani ti devi svegliare presto eccheccazzo, ti dico che salgo e scendo, e poi mettici un passo carrabile davanti alla tua porta “uèèèèèèèèèè, ma che ssi scemmm ssi…che a mme già non mi ci basta la penzione mò pure il passo carraio ci devo stare a mettere, ‘uagliò…mè, vedi che togli la macchina di qqua prima che te la faccio sparire…”.

E porca di quella puttana…! Ma perché sono venuto ad abitare qui? Pure le minacce adesso, che a quest’ora ero già salito e sceso e la macchina l’avevo tolta e l’uomo se n’era ritornato a dormire.

– Allora senti, senza che ti incazzi ulteriormente, io ora lascio la macchina qui per nemmeno cinque minuti, salgo un attimo, prendo quello che devo prendere che a te non interessa e ridiscendo subito. E se trovo un minimo graffio sulla macchina o uno sputo o una semplice cacata di uccello, io prendo chiodi e martello, ti muro qua, dentro casa tua, e mi vado a fregare le olive che devi andare a raccogliere tu domani mattina lambrettato alla cambagna,  come dici tu, e mi ci faccio l’olio per condire l’insalata, che dici? – glielo dico calmo e sereno che io comunque, provo un grandissimo rispetto per quest’uomo che a malapena arriva a fine mese con la pensione che il “faccione” gli propina ogni due mesi, e ogni mattina si sveglia presto per andare a raccogliere un po’ di frutta e verdura da vendere al mercato.

Mi guarda in silenzio.

Io da mò che ero già salito e sceso.

– Evabbè, stavo a giocare…vabbè, vabbè, basta che mi fai uscire addomani…

– Non ti preoccupare, un attimo e vado via…- un soffio di sollievo. Con la dolcezza si ottiene tutto.

Così, non proprio tutte le mattine ma quasi, il lambrettato mi sveglia con una bella slambrettata che la mattina non si mette bene in moto la lambretta, forse per l’umidità notturna, forse perché è un po’ vecchiotta, e spernacchia all’inverosimile fino a quando il motore non carbura e lui se ne va. Ma io, nonostante tutto sono contento che mi svegli perché vedo l’alba, che a me l’alba piace. Se non ci fosse il palazzo davanti…

 

 

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DELIKATESSEN (24ore Clandestino) – 2 parte

Antonella Clerici amalgama gli ingredienti della pasta frolla salata per fare il pane con i ciccioli, insieme a quella rompicoglioni che le sta accanto, quella che ha una voce odiosa come lei e come quell’altro vecchiaccio pensionato che, ci ho fatto caso, durante la trasmissione si tocca sempre i testicoli o si aggiusta il pacco. Io mangio lo yogurt sempre stravaccato sul divano, il segaossa è nel pieno della sua attività a quest’ora, tocca con quelle sue manacce la carne cruda e nuda e me lo immagino quello che pensa lui, davanti a queste ignare casalinghe in periodo pre pasquale, il porco.
Sono tentato di lanciargli un coltello dalla finestra, da questa distanza lo beccherei senz’altro. Oppure vado sul tetto e gli butto una busta di piscio direttamente nel suo atelier pieno di gente all’ora di punta.
Le fossette ai bordi della bocca della Clerici mentre parla mi piacciono tantissimo, mentre parla e impasta e fa le pallette per i panini. È un po’ chiatta però è tanto simpatica, questa beniamina delle casalinghe, quelle che a mezzodì stanno abbioccate davanti alla tivvù compreso me e mia madre. Solo che a mia madre non gliene fotte un cazzo, a me meno di lei. Io la guardo perché non c’ho un cazzo da fare e non voglio fare un cazzo.
La mia migliore amica mi ha fatto un prestito di cinquecento euri, e ieri mattina sono andato in banca a depositarli. Una settimana fa mi hanno chiamato per dirmi, stimatissimo cliente, sono otto mesi che il suo conto vede solo numeri che diminuiscono, eppure le sue entrate erano considerevoli, cosa è successo? Come mai? C’è stato qualche problema? I nostri servigi non la soddisfano più? Io rispondo in un tono alquanto formale che ho fatto degli investimenti, che è tutto sotto controllo, non si preoccupi signora, signorina prego, mi scusi, vedrà che entro la settimana prossima ricomincerò a rimpinguare la pancia delle vostre casse, allora la aspetto, vogliamo fissare un appuntamento? No grazie, brutta troiona, potrei sodomizzarti schiacciandoti la testa contro il muro, poi mi telefoneresti in continuazione per ripetere ancora questo amplesso immaginifico che dopo di te, lo sai, nessuno riuscirà mai più a soddisfarmi.
Così sono andato in banca e per entrare ho dovuto mettere nello sportellino soldi, cintura con borchie in metallo di quando eravamo tutti punk, il portatile pc, le chiavi e anche le scarpe con punta di ferro che suonava in continuazione l’allarme e mi risputava fuori, ecchecazzo! voi mi conoscete, ogni volta la stessa trafila. Per fortuna in banca non ci vado mai. Allora entro dentro questo siluro dai vetri trasparenti e la vocina mi dice: guardare dritto nella telecamera fino a che il viso non appare sullo schermo. Mettere il dito che più vi piace per il riconoscimento delle impronte digitali sull’apposito sensore. Attendere prego. Operazione conclusa. Grazie. Al che, entrando finalmente nella sala, mentalmente mi chiedo se siamo ancora nell’anno corrente, oppure ci troviamo nel futuro e io non me ne sono accorto…sembra di stare in uno di quei film tipo Blade Runner o Minority Report o nelle pagine di Nathan Never. Il signore che mi precede mi guarda dalla testa ai piedi, proprio ai piedi che sono con i calzini si, ma senza scarpe. E si fa una risatina. Cazzo ti ridi imbecille, gli dico mentalmente, sorridendo mentre lui mi guarda serio dopo che ha incrociato il mio sguardo eloquente, uno di quegli sguardi che devono avere i serial killer quando incontrano la loro prossima vittima. Così si gira e non ci pensa più, insieme a tutti gli altri deficienti in fila, imbarazzati dai miei piedi poco vestiti.
Il cassiere è sempre lo stesso, da quando mi servo di questa banca è sempre lui. Gli altri possono cambiare ma lui rimane sempre, con i baffetti, gli occhiali, e questo riporto unto e imbecille di capelli che farebbe meglio a tagliarseli e buonanotte. Gli mostro l’assegno. Lo giro con una firma che quello rimane a guardarla un po’. Il numero del suo conto prego? Mi dispiace ma non me lo ricordo. Ed è inutile che ridi, chiedimi il nome e cercalo, che sei pagato anche per fare questo, gli dico mentalmente. Non c’è problema, il suo nome prego? Il mio nome. Nato a? Nato a… il. Scorre la lista, arriva al mio conto, lo guarda, mi guarda. Prende l’assegno, ne taglia l’angolo, lo passa in una macchinetta che mi sono sempre chiesto a cosa servisse, segna l’ammontare sul computer, mi guarda ancora, sorride, sorrido. Mi guarda ancora mentre aspetta la ricevuta dalla stampante. Con i gomiti si appoggia sul bancone.
– Io ti conosco da tanto tempo, mi vuoi dire cosa ci fai con i soldi?
Guardo dietro di me. Non c’è nessuno. Appoggio i gomiti sul bancone come lui. Sento il suo alito puzzolente da dopo caffè stantio.
– Mi faccio i cazzi miei, stronzo! – in tono pacato e gentile. Mi distacco da lui. Lui rimane così, che forse non se l’aspettava ma sti cazzi, io riprendo la mia posa dritta e il sorriso tranquillo. Lui mi dà la ricevuta. Io la prendo. La ringrazio, arrivederci. E me ne vado osservato dagli altri clienti che prima guardavano i piedi e ora non li guardano più, mi guardano per intero ora.
Di nuovo nel siluro cyberpunk, all’uscita c’è la guardia giurata e giuro a me stesso che se si avvicina e mi dice qualcosa, prendo la cintura e mentre la infilo nei passanti dei pantaloni, gli spacco i denti con la fibbia e lo lascio lì, magari gli incastro la testa nella porta elettronica del siluro con la vocina guardare dritto nella telecamera fino a che il viso compare sullo schermo bip infilare un dito qualsiasi per il riconoscimento delle impronte digitali sull’apposito sensore bip…Ma io le braccia gliele lascio fuori, gliele…
Sorrido anche a lui mentre mi rivesto. Anche lui mi sorride, divertito dalla cosa dicendomi: che ci vuoi fare, basta che mettono i computerini…!
Io non sono violento ma questa volta ti sei salvato, bello. E io, quando mi sveglio con il cazzo storto, come dice la mia amica, sono pericoloso.

Con il cappotto grigio e il portatile nella destra, ma chi mi credo di essere? I carabbinieri hanno parcheggiato la loro bella volante sul marciapiede, proprio davanti al portone, e io non ci posso passare. Divieto di sosta. E lo so dove stanno, nel segaossa amico loro a dire cazzate invece di difendere la patria dai clandestini extracomunitari rapinatori, o aiutare le vecchiette ad attraversare la strada.
È una bella giornata.
Scianga sta seduto sulla sua automobile. Con le stampelle devi uscire, lo vuoi capire si o no che devi uscire con le stampelle che l’altra volta ti ho dovuto raccogliere da terra, non te lo ricordi? E stai sicuro Scianga, che la prossima volta non ti raccolgo, anzi, ti lascio lì e ti passo pure sopra, e se c’è la mia amica mi faccio pure fare una fotografia tipo cacciatore con la sua preda, con il piede appoggiato sul tuo costato. Quanto mi fai incazzare…proprio non ti vuoi bene? E a me non ci pensi che mi fai spaventare quando ti vedo steso per terra che mi sembri uno scarafaggio che tenta di rovesciarsi sulle zampe e non ci riesce?
Scianga si fuma la sua sigaretta, storpio sul cofano della sua automobile bianca. Scianga mi guarda mentre guardo lui e non gli dico niente, neanche buongiorno ti dico stamattina, Scianga. E la prossima volta che ti trovo per terra, Scianga, ti lascio lì. E Scianga mi guarda e non dice niente mentre entro nel segaossa dopo aver graffiato la fiancata della volante con la chiave del portone, e mi spiace dover interrompere i vostri discorsi senza dubbio interessanti e molto importanti, se avete lasciato la vostra volante sul marciapiede davanti al portone deve essere senza dubbio urgente, ma io non riesco a passare e devo ritirarmi nel mio appartamento, grazie.
Ed ecco che si avvicina lui, il più grosso, strafottente carabbiniere dalle fasce rosse laterali senza cappello, non lo sai che non puoi stare senza cappello o con la divisa in disordine se sei in servizio? Perché tu adesso mi stai dicendo che sei venuto a fare una notifica al qui presente segaossa, quindi sei in servizio e io devo stare attento al mio fornitore di carni perché voi state mattina e sera qua dentro, a fare notifiche al segaossa qui presente…Vediamo di mantenere la calma, e intanto alzi il tono della voce perché sei un carabbiniere ma la tua divisa è in disordine, te lo faccio presente e tu ti innervosisci di più perché tu sei nel pieno esercizio delle tue funzioni, quindi io devo stare attento, anche lei sig. carabbiniere numero di matricola XXX, perché se lei è nell’esercizio delle sue funzioni dovrebbe uscire da questo segaossa qui presente e dovrebbe essere sulle strade, rombante, a preservare il suol natìo da atti vandalici e criminosi, e non parcheggiato in divieto di sosta laddove non è concesso neanche ai tutori dell’ordine a meno che non siano in stato d’emergenza, e non credo che quattro chiacchiere con il qui presente segaossa siano un emergenza.
Rapido movimento della mano sulla fondina, e il segaossa qui presente fa il paciere.
– …dai su! Ha ragione il ragazzo, abita di sopra, vi vede tutti i giorni. Dai su, fate i bravi!
Ebbravo segaossa, mi sei piaciuto. E il carabbiniere fa dietro front che io non mi sono neanche spostato. Così, esco dal sega ossa qui presente e passo stringendomi tra la volante sfregiata e il portone. Scianga storpio sta ancora lì, Michele il pazzo si è avvicinato incuriosito alla scena. È un mondo difficile, gli faccio a Scianga, mentre il fresco e umido portone mi risucchia nel suo ventre.

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Antonio Bufi

Antonio Bufi nasce in quel di Molfetta, una ridente cittadina che si affaccia sull’Adriatico, una manciata di anni fa. Dopo aver provato a far volare dal balcone aeroplanini fatti con i fogli su cui scriveva i sui pensieri imberbi, rimane folgorato come Paolo sulla via di Damasco dalla buccia di limone che sua madre usa per la crema pasticcera...

Valentina Pelizzetti

Valentina Pelizzetti nasce in quel di Torino, una verde cittadina attraversata dal Po, pochi anni dopo Antonio. Dopo aver sognato invano di essere la Carla Fracci de' noiartri si scrive ad architettura...